Montevergine tra mito e storia

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Pasquale Mattei, Ritorno da Montevergine, 1832 (Museo di Capodimonte)

“Biata chella bella Sant’Anna e chillu San Giacchino ca’ sette figlie facetteno
e tutt’e sette li fecero Maronne! Tutte bjonne ‘e riggine e nu’ paese,
trann’a una, bruna e schiavona.
“Schiavuttè tu sì a chiù brutta” le dicevano lì sore.
“Si io so brutta me ne vaco n’copp ‘o muntagnone e là tutte m’avite venì a prija.”
Roberto De Simone, Canti e tradizioni popolari in Campania, 1979 Side editori

Questo inciso tratto da un canto popolare esprime, nella diversità delle varianti diffuse sul territorio, una tematica ricorrente, il rapporto di parentela tra le madonne. La leggenda delle madonne sorelle, nata in epoca medievale, pone in relazione credenze radicate nel territorio della provincia di Napoli e in tutto il meridione. Nella tradizione popolare campana infatti sono sette le sorelle madonne alle quali vengono dedicate le feste, in un arco di tempo che va da febbraio a settembre. La Madonna di Montevergine è l’unica che viene festeggiata due volte, ad apertura e chiusura del ciclo, rispettivamente il 2 febbraio ed il 12 settembre. (1) L’icona virginiana, attribuita al pittore Montano D’Arezzo ancora oggi molto venerata, è conosciuta come Mamma Schiavona. L’appellativo “schiavone” in lingua partenopea veniva attribuito a chi aveva la carnagione abbronzata. Ai pescatori ed ai contadini arsi dal sole e dalla calura in mare o nei campi che prendevano il colore dei mori a causa del loro lavoro all’aperto. Il termine aveva quindi una accezione negativa e classista. Da tale dato emerge subito l’importanza che i fedeli davano al colore del volto della Vergine. (2)

La Mamma Schiavona diviene nei secoli simbolo di protezione degli ultimi, dei deboli, dei poveri e degli emarginati, Lei che “tutto vede, tutto accoglie e tutto perdona”, sì trasforma nella più bella delle sorelle. In pieno oscurantismo ecclesiastico, nel XIII secolo, avvenne il miracolo che la consacrò come protettrice dei “diversi”. Nel febbraio del 1256, due giovani paggi reali furono scoperti a baciarsi e a scambiarsi effusioni. Di fronte a questo evento l’intera comunità reagì denudando e cacciando dal paese i due innamorati. Successivamente la coppia venne legata ad un albero sul nevoso Monte Partenio, in modo che morisse assiderata o che fosse sbranata dai lupi. La Vergine, commossa, spezzò le catene e inondò di caldo sole i condannati. Quello che gli uomini avevano condannato, la Vergine permise. Il popolo accorso, attestato il Miracolo, non poté far altro che accettare l’accaduto lasciando liberi i prigionieri. Il prodigio fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i femminielli divennero devotissimi della Madonna di Montevergine. Il 2 febbraio, festa della Candelora, per ricordare questo prodigio e celebrare l’inizio della Primavera e il ritorno del Sole, un’intera processione composta in prevalenza da lesbiche, gay, bisessuali e transgender, si reca in pellegrinaggio al Santuario in onore della Madonna nera. Tale processione è conosciuta come la “Juta dei femminielli” cioè l’ascesa a tappe, verso la casa della Madonna, posta sul monte Partenio a quota 1237 metri s.l.m.

I canti d’ascensione sono intonati rigorosamente “a ffigliola” (3) dal capo paranza, l’accompagnamento musicale della strofa di risposta è modulato sul ritmo scandito dalle tammorre e dalle nacchere. «Chi vo’ grazia ‘a Mamma Schiavona, ca sagliesse lu Muntagnone»; inizia così la scalata e finisce col verso «E statte bbona Maronna mij, l’ann’ che vene turnamm’ a venì! Ca si stessem chiù vicino nce venessemo tutt’ e journe».

Il connotato folkloristico assunto dal pellegrinaggio ha spesso provocato scontri con l’autorità ecclesiastica. In due occasioni, nel 2002 e nel 2010, l’abate del santuario arrivò addirittura a scacciare i membri della comunità LGTBQ dal sagrato del santuario, scagliando su di loro un vero e proprio anatema.

Cibele e Attis, incisione. Si notino i tamburelli nelle mani delle divinità

Ma può la Chiesa contraddire quello che la storia ha approvato ed addirittura incoraggiato prima della sua comparsa? Già, perché le processioni sul monte hanno inizio molto prima che i seguaci di Cristo approdassero su queste sponde. Racconta il sommo poeta Virgilio che sul Partenio i popoli sanniti della civiltà appenninica, Hirpini e Caudini, veneravano la Dea Madre già nel VIII -VII secolo a.C. Al culto alla Mater Matuta si affiancò e si sovrappose nel III secolo a.C. quello della dea del vicino oriente Cibele, importato dai soldati cartaginesi al seguito di Annibale. Il nome Cibele deriva dal frigio “MATAR KUBILEYA” (madre della montagna) e la dea è raffigurata assisa su di un trono con il capo cinto da una corona turrita, con la pelle scura e con un tamburello nella mano. Al suo fianco il figlio Attis, resosi volontariamente eunuco perché impossibilitato a sposare la donna che amava. Le due cerimonie in onore della dea si svolgevano una durante l’equinozio di primavera e l’altra in occasione della festa del raccolto in settembre ed erano officiate dai sacerdoti del culto detti Coribanti. Come racconta il poeta Gaio Valerio Catullo (I secolo a.C.), i coribanti guidavano un vasto corteo di fedeli verso l’ascesa alla montagna sacra, suonavano tamburi e cembali e, in una sorta di estasi orgiastica creata dal ritmo ossessivo dei canti e dagli infusi di erbe psicotrope, arrivavano ad evirarsi con pietre appuntite per consacrarsi vergini in eterno al servizio della dea e del suo sfortunato figlio. Tale sacrificio serviva anche a sconfiggere la “malinconia di Zeus” (forse la depressione), la sterilità e l’epilessia.

Tali rituali erano ancora in uso durante l’alto medioevo. Infatti nel 685, come si evince da una cronaca coeva, san Vitaliano, vescovo di Capua, fece abbattere il tempio pagano, e con le pietre del tempio di Cibele fece costruire una prima cappella in onore di Maria Madre di Cristo. L’operazione di sovrapposizione sincretica operata dalla Chiesa per secoli non è mai riuscita del tutto a cancellare la memoria degli antichi culti e, pur se nei secoli successivi l’abbazia di Montevergine è divenuta quel magnifico scrigno di arte e cultura cristiana, il retaggio ancestrale permane fortemente.

NOTE

  •  1 ) Numerose sono, infatti, le Madonne venerate in Campania; alcune traggono il nome dai toponimi a cui sono connesse (Madonna di Pompei, Madonna di Montevergine ecc.); altre da una qualità o da un oggetto loro attribuito (Madonna della Pace, Madonna di Castello, Madonna delle Galline ecc.). La diffusione tanto capillare e intensa del culto mariano si spiega col fatto che in Campania l’elemento femminile è stato sempre maggiormente oggetto di culto rispetto a quello maschile, dato che il substrato sociale e popolare campano è “falsamente patriarcale”. (Canzanella – Borriello, La più brutta se ne andò a Montevergine, 1994 Stella Edizioni)
  • 2 ) Gabriele Tardio, La leggenda delle sette Madonne, SMil editore 2008
  • 3 ) Il canto a ffigliola rappresenta una tipologia di canto lirico a distesa, tipico della regione Campania. Questo stile di canto non prevede accompagnamento strumentale, ha un andamento ritmico libero e la presenza del coro nella cadenza finale. (Archivio storico della canzone napoletano – cptv rai di Napoli)

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