Hybris berlusconiana

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Silvio Berlusconi fotografato nello studio della Edilnord, nel 1974, per la rivista Life

“Hybris: topos della tragedia greca e della letteratura greca, che descrive una qualità della personalità di estremo o eccessivo orgoglio o pericolosa ed eccessiva sicurezza, spesso in combinazione con (o sinonimo di) arroganza. Si riferisce in generale a un’azione ingiusta o empia avvenuta nel passato, che produce conseguenze negative su persone ed eventi del presente. È un antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla catastrofe della tragedia stessa.” (Da Wikipedia)

C’è un modo di dire tutto napoletano che recita: “parlanno do’ cuorpo ‘e non dell’anema“, assolvendo, ipso facto, chi lo pronuncia prima di iniziare una conversazione che ha per soggetto una persona defunta. Sebbene escatologicamente si possa opinare sull’esistenza di un’anima immortale, non è possibile altresì dubitare sulle verità processuali emerse nei dibattimenti e confermate dalle sentenze. Al giorno della sua morte (il 12 giugno scorso) si potevano contare a suo carico 32 processi conclusi e 4 in corso. Stiamo parlando di Silvio Berlusconi, l’imprenditore rampante e uomo politico che ha esercitato una influenza profonda sulla vita del Paese negli ultimi decenni tanto da far dire allo scrittore e giornalista francese Jacques Martin: “Il Berlusconismo è il più grave attacco alla democrazia occidentale dal 1945; un fenomeno che non può essere trascurato” (in un articolo pubblicato su The Guardian nel 2006).

Ma, come in un film, avvolgiamo il nastro e torniamo agli anni Settanta del secolo scorso: mentre un operaio guadagnava 130.000 lire al mese e una tazza di caffè ne costava 70, il palazzinaro Berlusconi, allora trentasettenne, costruiva Milano 2 con cantieri che costavano 500 milioni al giorno. Il giornalista Giorgio Bocca nel marzo del 1974, dalle pagine dell’Espresso scriveva: “chi gli dà i soldi? Non si sa. Come è possibile che un giovanotto come questo Berlusconi abbia un jet personale con cui raggiunge nei Caraibi la sua barca, che poi sarebbe una nave oceanica. Noi saremmo molto curiosi, molto interessati a sapere dal signor Berlusconi la storia della sua vita: ci piacerebbe sapere come si fa a passare dall’ago al milione e dal milione ai cento miliardi.” Forse avrebbe dovuto chiederlo a un boss di primissimo piano di Cosa nostra come Stefano Bontade, all’epoca al vertice del triumvirato che reggeva l’organizzazione mafiosa siciliana con Gaetano Cinà e Mimmo Teresi: l’incontro del 1974 con il boss Stefano Bontate, organizzato dal suo braccio destro Marcello Dell’Utri; i soldi per la “protezione” accertati dalla Cassazione, ma questa è un’altra storia.

Dicevamo che il parvenu Berlusconi era in cerca di una dimora di prestigio per nobilitare il suo nome. L’amico Cesare Previti, futuro ministro della difesa ma all’epoca avvocato e faccendiere, gli trova l’affare. Una sontuosa dimora ad Arcore con tanti ettari di parco annessi, il palazzo avito dei marchesi Casati Stampa di Soncino. L’opportunità d’acquisto si profilava grazie allo scandalo che aveva colpito i proprietari. Camillo Stampa, discendente di una delle più antiche famiglie patrizie meneghine, nell’intimità dell’alcova era un noto voyeur. Lo stesso aveva offerto consapevolmente per anni le grazie della bellissima e giovane moglie Anna Fallarino a degli aitanti estranei appartenenti alla classe proletaria. Il gioco erotico finiva tragicamente nel sangue il 30 agosto 1970 quando, nella sua casa romana, il marchese uccideva la moglie ed il giovane studente Massimo Minorenti, per poi togliersi la vita. Il dramma del duplice omicidio e il suicidio del marchese Camillo infuocarono i rotocalchi di quella Italietta ancora bigotta e pruriginosa.

Una vera shitstorm investì Annamaria Casati Stampa, figlia del marchese, all’epoca dei fatti ancora minorenne. Per l’eredità dell’immenso patrimonio del marchese si scatenò subito una guerra legale: la ragazza ne uscì vincitrice ed il giudice nominò, come tutore di Annamaria, un amico di famiglia, l’avvocato Giorgio Bergamasco, allora esponente del Partito liberale e ministro del governo Andreotti.

Cesare Previti all’epoca collaboratore dell’onorevole Bergamasco, pur essendo stato avvocato della controparte nel processo, riuscì a carpire la fiducia di Annamaria Casati facendosi nominare dalla stessa vice tutore delle sue sostanze. “Cristo n’mano a e giudji”, verrebbe da dire. La ragazza ereditò due miliardi e 403 milioni di lire tra beni mobili, immobili e gioielli e decise di trasferirsi in Brasile col marito. Previti, nella qualità di vice tutore, ricevette l’incarico di vendere Villa San Martino ad Arcore. Il valore del bene immobile di 3500 metri quadri fu allora stimato in 1 miliardo e 300 milioni di lire, escludendo dalla valutazione l’immenso parco, le scuderie, gli arredi d’epoca e la pinacoteca (tra le cui opere figuravano un Tiziano e un Tintoretto), una biblioteca di oltre 10 mila volumi antichi.

L’avvocato Cesare Previti ed il fratello Umberto, nominati nel frattempo soci permanenti nel consiglio d’amministrazione della società Immobiliare Idra S.p.a., facente capo a Berlusconi, riescono a fargli acquistare per “soli” 500 milioni la villa d’Arcore. Nel prezzo sono compresi anche pinacoteca, arredi, parco e scuderie. Silvio paga l’intero prezzo in azioni, non ancora quotate in borsa, della erigenda Fininvest e dilaziona il pagamento in sei rate. Mentre la marchesina Casati continua a pagare le tasse erariali fino al 1980 (come da stipula a suo carico fino al saldo del pagamento), la società Idra otterrà dalle banche due super finanziamenti dando in garanzia la villa di Arcore: oltre 7 miliardi nel 1976, più altri 680 milioni nel 1979. Tra l’altro l’ereditiera non riuscì mai a monetizzare quelle azioni che alla fine cedette a Berlusconi, con la “mediazione” di Previti, per soli 250 milioni.

Mentre iniziano i lavori di restauro di quello che diventerà la dimora simbolo del berlusconismo, la biblioteca antica (frequentata in passato da Benedetto Croce) sarà concessa a Marcello Dell’Utri (braccio destro del premier, cofondatore del partito Forza Italia e senatore della Repubblica, condannato in via definitiva al carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa). Arredi, parco e scuderie saranno affidati alla competenza di Vittorio Mangano (mafioso affiliato alla famiglia di Porta Nuova, pluriomicida, definito da Paolo Borsellino una delle “teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia”).

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