Anche l’NBA grida: “enough is enough”.

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Gli Stati Uniti d’America oramai da mesi non vivono sonni tranquilli. Oltre ai problemi legati al Covid-19, con numeri impressionanti di contagiati e deceduti e la recessione economica che inizia a far sentire i propri effetti, l’uccisione di George Floyd ha riacceso quello che nel paese a stelle e strisce è un problema oramai secolare: le discriminazioni razziali. Da sempre questo tema tiene banco nell’agenda politica statunitense; a intermittenza questo campanello d’allarme suona, ma negli anni è stato più volte ignorato. Adesso sembra impossibile farlo. Della morte di Floyd e delle proteste che sono seguite al caso abbiamo già parlato, quello che però non è stato ancora detto è quanto sia spaccata in due la società americana attualmente.

L’ultimo episodio, quello che ha visto coinvolto Jacob Blake, l’afroamericano colpito con 7 colpi alla schiena dopo un fermo di polizia, è stato percepito come un affronto bello e buono. “Enough is enough” (il troppo è troppo) è lo slogan più gridato nelle ultime settimane; così anche il mondo dello sport ha scelto di scendere in campo, questa volta per giocare la partita più importante di tutte: quella per la dignità. L’NBA, lo sport più seguito e popolare negli States ha lanciato un chiaro messaggio subito dopo l’episodio di Blake: i giocatori della Lega hanno scelto di non giocare. È un momento storico senza precedenti. Le immagini del parquet vuoto senza il rumore stridulo delle scarpe che corrono, il cronometro che scorre, la sirena che suona, ma i beniamini di milioni di americani non sono lì a giocare. L’impatto è di quelli senza precedenti, non solo perché i cestisti hanno fermato un business da miliardi di dollari, ma soprattutto va sottolineata la potenza di questo gesto senza eguali. Un gesto che questa volta non può essere travisato come marketing, bensì un’azione concreta. Non è la prima volta però che l’NBA si propone come sport progressista in un paese retrogrado. Sin dagli albori, ovvero quando nel dopoguerra dominava la segregazione razziale, la NBA si rese “sport di cambiamento”, facendo scendere in campo dei giocatori afroamericani. Quel passo, seppur tra mille difficoltà, avvicinò bianchi e neri. Ritornando al presente: quello dei giocatori della squadra Milwaukee Bucks di non scendere in campo contro Orlando Magic nella Eastern Conference, è un gesto rivoluzionario tanto che possiamo paragonarlo al pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico di 52 anni fa. Così a catena anche le sfide tra Oklahoma City e Houston Rockets e la sfida tra Lakers e Portland sono saltate. Tutti uniti contro il razzismo, questa volta non è uno spot pubblicitario, ma un atto concreto. Donovan Mitchell, Lebron James, Jamal Murray, George Hill, tantissimi sono i giocatori che su twitter si scagliano (seppur senza mai nominarlo) contro Donald Trump e la sua amministrazione. “Vogliamo giustizia”, scrivono in molti. La risposta di Trump non si è fatta attendere: “NBA organizzazione politica”, scrive il Presidente impopolare, inimicandosi anche molti dei suoi sostenitori, mentre ovviamente dall’altra parte Obama e Biden sostengono la protesta dei giocatori. Così, mentre i cestisti più famosi al mondo discutevano su come rinunciare a questo campionato, l’unico che poteva farli ritornare in campo ci è riuscito, Michael Jordan. La leggenda di questo sport ha ascoltato la rabbia di chi cerca di eguagliare le sue gesta. Jordan è stato l’unico in grado di allentare la tensione, ha convinto tutti a ritornare in campo e terminare questa insolita stagione. Ci è riuscito. Le condizioni con cui i giocatori tornano in campo, segnano un’altra pagina di storia, una pagina in cui solo lo sport poteva portare luce e speranza. I provvedimenti sono di quelli concreti, mano alla tasca: saranno donati 500 milioni di dollari per promuovere attività e iniziative a favore della comunità nera. Ogni team nella propria città si renderà partecipe di attività a supporto dei più bisognosi. In più, i giocatori, con donazioni da milioni di dollari, sosterranno la crescita del movimento Black Lives Matter. Dopo anni di snaturamenti a suon di milioni e sponsor, lo sport ritorna ad essere del popolo. Questa volta l’NBA l’ha messa dentro da 3 punti, vincendo la partita.

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