Diario di un “sorvegliato speciale”: 25 maggio

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Quando esci indenne da una pandemia che ha provocato decine di migliaia di decessi, se qualcuno ti chiede come stai, puoi finalmente dire che godi di buona salute mentre, in tempi normali, se ci sentiamo bene uguale, non proviamo alcun particolare godimento. Il che è sbagliato se pensiamo che l’assistenza sanitaria di cui beneficiamo attualmente potrebbe venir meno: quindi godi fanciullo mio, stato sociale, stagion lieta è codesta. Il coronavirus ha falcidiato intere popolazioni ma almeno ha restituito ai superstiti il gusto dello star bene.

In realtà numerosi sono i modi di dire, spesso arcaici, che hanno poco o nulla a che vedere con la realtà ma soprattutto con un uso appropriato. E il linguaggio indulge spesso, anche nelle sedi più degne, ad indebite estensioni di modi di dire. Mia moglie ed io ci siamo messi a ricostruire, senza pretese, un rapido excursus delle espressioni che, a partire dagli anni Sessanta, hanno goduto di una immeritata diffusione.

Il primo oggetto di abuso che ricordiamo risale alla fine degli anni Sessanta e fu “al limite”. Non ebbe una vita lunga quanto il “non indifferente” tuttora di largo uso ma nato verso la fine degli anni Settanta. Negli anni Ottanta entrò nell’uso corrente un’espressione mutuata dal linguaggio dominante nelle relazioni sindacali dell’epoca: la “variabile indipendente”, che però, più o meno negli stessi anni, fu surclassata da “nella misura in cui”, che ebbe ampia fortuna in tutti i campi. Più vicino a noi è il “mettere i paletti”, che ha avuto seguito per un bel pezzo, mentre dalla fine degli anni Novanta una nicchia cui tuttora qualcuno si rivolge è l’assioma di “scaiolana“ memoria “a sua insaputa”.

All’epoca dell’ultimo Veltroni “politico” (passato poi interamente alla cultura cinematografica e letteraria, terreno pacatamente più consono alla sua fantasiosa personalità) appartiene invece il “senza se e senza ma” tutt’ora di ampio utilizzo. Nel frattempo però dilagava, con l’avanzare della diffusione dei social, il “virale”, un tempo appannaggio esclusivo dell’ormai, ma incautamente, dimenticata epatite.

Mentre persistono i più longevi dei modi di dire appena elencati, nasceva e resiste bene tutt’ora il “punto” collocato al temine di un’affermazione per renderla perentoria e irrevocabile (una volta si sarebbe usato il “punto e basta”). Un posticino per un tempo non proprio lungo è toccato anche all’avverbio “plasticamente”, usato quasi sempre in maniera impropria vista la sua pertinenza alle arti, per l’appunto, plastiche.

Negli ultimissimi tempi va prendendo piede nel linguaggio più dotto la “distopia” e l’impressione è che il suo significato tenda sempre di più ad indicare ciò che è fuori posto, privilegiano quindi il suo etimo in campo anatomico, piuttosto che un luogo o un mondo opposto all’utopia. Non avrà vita lunga né una diffusione significativa, proprio in ragione della sua ambivalenza, anche se pronunciarla fa molto chic. La stessa sorte toccherebbe, per analoghe ragioni, anche ad aggettivi fascinosi, come “icastico” o “stocastico” (che non è una volgarità sessista) e men che mai al “macchinico” che lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati ci ha fatto conoscere su Rai 3.

Più probabile invece, grazie all’impatto universale dell’epidemia in atto, la diffusione, previa estensione agli aspetti più comuni della vita ordinaria, dell’aggettivo “asintomatico”. Il fatto che esprima il concetto della mancanza di segni esteriori lo rende applicabile a numerosissime fattispecie: troveremo persone intelligenti “asintomatiche” (cioè più o meno idioti), uomini di cultura “asintomatici” (cioè perfetti ignoranti) e ministri competenti “asintomatici” (cioè totalmente incapaci, come sta capitando troppo spesso). L’evasore fiscale sarà dunque un contribuente “asintomatico”, mentre il ladro lo sarà da onesto.

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