Liberté, Égalité, Fraternité

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Albrecht Dürer, Mani in preghiera, 1508, penna ed inchiostro su carta blu, Albertina, Vienna (Fonte Wikipedia)

Credo che mai nei tempi passati, da tutta la terra si siano levate così tante preghiere per la pace come in questo tempo. Letteralmente milioni di persone elevano suppliche, implorazioni, richieste. Ognuna d’esse chiede al suo dio di intervenire perché cessi questo immondo spargimento di sangue. I cristiani — benché divisi in centinaia di confessioni religiose che in passato si sono maledette e massacrate per secoli — pregano il loro dio, il dio della Bibbia, sebbene sia più appropriato dire il dio del Nuovo Testamento, lontano anni luce da quello del Vecchio. Al riguardo non posso non ricordare un intervento di Guido Marenco, che in un commento di Norberto Bobbio apparso su Micromega con oggetto l’enciclica Fides et Ratio, inseriva il seguente inciso: “Tuttavia nel mio antignosticismo, forse a differenza di Bobbio, arrivo facilmente ad augurarmi che Dio esista, e che esista proprio come affermano alcune pagine della Bibbia (non tutte, per carità, perché allora Dio sarebbe un infame, altro che Dio!)”.

I musulmani, anch’essi frammentati in numerose aggregazioni spesso in aperto conflitto l’una con l’altra, pregano il loro dio, Allah, il dio di Maometto (il suo profeta), il dio del Corano; gli ebrei rivolgono i loro peana al dio di Abramo, il dio del Talmùd, della Torah e di altri scritti rabbinici, essendo anche il giudaismo un fiume con molti affluenti.

Sì, tutti pregano, ma le loro richieste sono tutte uguali? In base a quale criterio Dio dovrebbe ascoltarne ed esaudirne alcune e rigettare le altre? Ovviamente, ciò di cui stiamo parlando riguarda le persone che credono che in qualche luogo vi sia un Ente Supremo, che alcuni hanno definito “l’uditore di preghiera” (Salmo 65:2), che sia in grado o voglia, dopo avere ascoltato, esaudire le richieste che gli pervengono. I laici non hanno questo problema, pertanto non possono essere delusi se nessuno risponde alle loro preghiere (ammesso che in certe circostanze lo facciano). Stefano Rodotà in Perché laico (Laterza, 2010), citando un amico ai tempi del Concilio Vaticano II, riferisce così le sue parole: “Meraviglioso, straordinario Giovanni XXIII! Ma, noi laici, il nostro Concilio lo abbiamo fatto nel 1789”. Facile intuire il suo riferimento alla Rivoluzione Francese, che coniò il manifesto più importante per l’Europa intera, che introdusse il periodo dei diritti, come lo definisce Rodotà “Il diritto di avere diritti”. Le tre parole “magiche” di quel manifesto erano “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”. Le parole più significative della “preghiera” dei laici, perché non hanno bisogno di un Ente soprannaturale per realizzarsi, basta la volontà degli uomini, degli uomini “di buona volontà”. Non è necessario essere religiosi per sentirsi investiti di una missione. Quella del laico, prosegue Rodotà, “non è quella di ribattere colpo su colpo. Deve essere capace di esprimere con forza e convinzione il suo punto di vista, ma al tempo stesso deve lavorare perché vi siano le condizioni per un confronto aperto e continuo tra i diversi punti di vista. Deve quindi impedire la formazione di qualsiasi tipo di ghetto, religioso, etnico, localistico, ideologico. Deve incessantemente lavorare per distinguere quel che deve essere regolato dalla norma giuridica e quel che deve essere affidato alla norma morale e alla coscienza individuale. Siamo ben lontani dalla vecchia diatriba tra clericali e anticlericali, e ben entro il difficile lavoro che ci impongono tempi di grande cambiamento”.

Pregare, dicevamo; e, a tal proposito, mi ha particolarmente incuriosito un intervento del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, su la Repubblica del 27 ottobre scorso, intitolato La preghiera e l’azione, che sembra richiamare, nella sostanza, il concetto espresso da Rodotà che impone ai “laici” di lavorare strenuamente perché tutto si possa risolvere con il confronto e non con le armi. Il rabbino, consapevole che niente di ciò che noi, gente comune, possiamo fare, se non manifestare il nostro sgomento, sdegno, riprovazione, definisce tutto questo, insieme ai cortei di protesta e ad altre manifestazioni, “strumenti poco efficaci rispetto ai poteri delle parti in conflitto”. Però, c’è un “però” che può capovolgere la situazione, e così egli prosegue: “Però, almeno per chi crede, molto o solo un po’, c’è uno strumento importante di intervento, la preghiera. La preghiera veicola le aspirazioni del singolo, è efficace nell’unire un gruppo, esprime dolore e chiede che sia confortato e gli sia posto fine; e chi prega ritiene e spera che la sua preghiera possa essere ascoltata e accolta” [Qui il rabbino non dovrebbe trascurare il profondo significato del noto proverbio, secondo il quale “chi di speranza vive, disperato muore”].

Poi il religioso precisa: “Questo non significa però che automaticamente la preghiera sia un valore assoluto. Dipende da cosa si chiede. Si può pregare per la pace, che sembra una cosa bellissima, ma bisogna vedere di quale pace si tratti, se è una pace in cui il male sia sconfitto o una pace che pur di averla soddisfa gli aggressori e i violenti dopo che hanno rapinato, e lascia gli sconfitti feriti e offesi. Si può pregare per la rovina dei nemici, per la vittoria in battaglia, e tutto dipende da chi siano i nemici. Ognuno pretende di fare guerre giuste. Le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente … La preghiera è un’arma anche se non spara, e la sua moralità dipende dal suo contenuto. È bello vedere moltitudini che si raccolgono a chiedere la pace, che guardano oltre ai termini dei conflitti, che vogliono la fine delle sofferenze, ma bisogna valutare se guardare oltre non significa appiattire le differenze e fare tutti uguali; in ogni conflitto non ci sono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma certamente vi sono quelli più buoni e quelli più cattivi. La preghiera può diventare un alibi per scaricarsi la coscienza, per stabilire un’equidistanza inopportuna, per cancellare le valutazioni morali …C’è il momento della preghiera e il momento dell’azione … I profeti della Bibbia hanno severamente criticato una religione in cui gli atti formali non siano preceduti dal ravvedimento, dal riconoscimento delle colpe, dalla correzione delle opinioni sbagliate, iniziando da quelle proprie e continuando con quelle degli altri. Con queste premesse il valore della preghiera e l’invocazione della pace crescerà, sarà più alto, più efficace”.

Se si legge attentamente ciò che ha scritto il rabbino capo, si comprende che la preghiera è, sì, un’arma, ma un’arma caricata a salve, e che se non è seguita dall’azione non serve a nulla, e che solo mobilitandosi “il valore della preghiera e dell’invocazione della pace crescerà, sarà più alto, più credibile, più efficace”. Quest’ultimo aggettivo, “efficace”, nella comune comprensione vuol dire che “produce pienamente l’effetto richiesto e desiderato” (Treccani). Nel caso di cui ci stiamo occupando, tristemente risulta che “efficace” non può in alcun modo applicarsi alla preghiera, poiché i risultati — odierni e dei secoli passati — stanno lì a dimostrarlo. Anche l’autore dell’articolo ne è consapevole, e fa chiaramente intuire che la preghiera è, per così dire, un “pannicello caldo”, inutilmente consolatorio, anche se non lo esprime apertamente perché il suo ruolo nella comunità ebraica della Capitale non glielo consente. D’altra parte è sempre lui che nel suo scritto non collega nemmeno una volta la richiesta contenuta nella preghiera con il suo esaudimento. Ovvero, puoi chiedere tutto ciò che vuoi con la fede più forte del mondo, ma sappi che — forse — sarai ascoltato ma, certamente, non esaudito. E, al riguardo abbiamo degli esempi da non trascurare, anche se per il rabbino non rivestono molta importanza, dato che appartengono alla fede cristiana che per secoli ha definito il suo popolo “perfidi giudei”, e non alla sua. Si tratta delle parole che troviamo nella prima lettera di Giovanni 5:14-15: “Questa è la sicurezza che noi abbiamo in lui: se noi chiediamo qualcosa secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se noi sappiamo che egli ci ascolta qualora gli chiediamo qualcosa, sappiano già di avere da lui tutto ciò che gli abbiamo chiesto”. (La Bibbia, edizioni paoline, 1983). Giovanni aveva evidentemente molta fiducia nella preghiera, tanto che nel suo vangelo aveva scritto: “Se uno è pio verso Dio e fa la sua volontà, quello egli esaudisce” (9:31, Versione Riveduta).

Ora, se c’è qualcosa che gli uomini “pii” continuano incessantemente a chiedere, è la pace, perché non può esservi dubbio che la richiesta della pace dovrebbe certamente essere “secondo la sua volontà”. E allora? Quale spiegazione logica e ragionevole l’uomo di fede può dare e darsi, quando impatta con “il silenzio di Dio?”. Da sempre, menti illustri di insigni filosofi e teologi hanno argomentato, riflettuto, dibattuto su questo inspiegabile “silenzio”, per non sfociare altro che nella metafisica, cioè nel nulla.

Ancora una volta ripetiamo la domanda: e allora? I laici e le persone di buon senso hanno la risposta, e vediamo qual è. Ritornando indietro, alla Rivoluzione Francese, prima della quale gli “uomini pii” di un popolo oppresso da una monarchia tirannica e sorda (come in tutte le altre nazioni del tempo, e anche oggi), chissà quante volte avevano levato suppliche, perorazioni, preghiere. Ma non era cambiato niente! Cosa bisognava fare? La causa delle sofferenze di un intero popolo era provocata da uomini, non da dèi, e quindi spettava all’uomo risolverla, né a Dio, né a dèi. E, ad un certo momento, quegli uomini presero in mano il loro destino e agirono! Sappiamo tutti cosa accadde: un intero continente che aveva sofferto sopraffazioni, ingiustizie, fame, miseria, schiavitù, fu adesso liberato non dalla risposta di un dio alla preghiera, ma dall’azione di uomini, i cui risultati straordinari si riverberano anche su di noi fino ad oggi. Tutto ciò che di male accade, eccettuate — naturalmente — le catastrofi naturali, accade per volontà di certi uomini, e quindi spetta agli uomini e non a un dio silenzioso e inconoscibile affrontare quel male e sconfiggerlo.

Alla fine abbiamo la risposta: la preghiera laica, la preghiera della ragione e non della fede, è quella sulla quale possiamo fare affidamento. Ed essa, già più di due secoli fa, ci ha dato la risposta: Libertè, Égalitè, Fraternitè. E sono queste le tre condizioni per vivere una vita degna d’essere vissuta. E, non dimentichiamolo mai: è l’uomo l’artefice del suo destino, non altri.

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