Artemisia Gentileschi e la forza della passione

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Simon Vouet, Ritratto di Artemisia Gentileschi, 1623 circa; Pisa, Palazzo Blu (Fonte Wikipedia)

“Una donna è il cerchio completo. Dentro di lei c’è il potere di creare, nutrire e trasformare.”
Diane Mariechild

Artemisia Gentileschi è stata una delle poche donne che hanno raggiunto il successo nel mondo della pittura del Seicento, dominato dagli uomini. La sua vita e la sua arte sono state segnate da una violenza subita in gioventù, ma anche da una grande determinazione e una profonda passione per il suo mestiere.

Artemisia Gentileschi nacque a Roma nel 1593 da Orazio Gentileschi, un pittore di scuola caravaggesca che le insegnò i rudimenti dell’arte. Rimasta orfana di madre nel 1605, Artemisia si esercitò in casa ricopiando opere altrui e dimostrando un precoce talento. Nel 1611 il padre affidò la sua educazione artistica ad Agostino Tassi, un altro pittore che ammirava, ma questi la violentò e la costrinse a una relazione clandestina. Il fatto fu scoperto da Orazio, che denunciò Tassi per stupro e per il furto di alcuni dipinti. Ne seguì un processo durato sette mesi, durante il quale Artemisia fu sottoposta a torture e umiliazioni per verificare la sua testimonianza. Tassi fu condannato all’esilio da Roma, ma non scontò mai la pena.

Dopo il processo, Artemisia si sposò con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore fiorentino, e si trasferì a Firenze, dove iniziò la sua carriera indipendente. Qui dipinse alcune delle sue opere più famose, come le due versioni di Giuditta che decapita Oloferne, oggi conservate al Museo nazionale di Capodimonte a Napoli e alla Galleria degli Uffizi a Firenze. In queste tele, la pittrice esprime tutta la sua forza e il suo coraggio di donna, identificandosi con la protagonista biblica che uccide il tiranno assiro per salvare il suo popolo. Il realismo crudo e drammatico delle scene riflette l’influenza di Caravaggio, ma anche la sua esperienza personale di vittima e di vendicatrice.

A Firenze entrò in contatto con la corte dei Medici e con altri artisti e intellettuali dell’epoca, come Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il Giovane. Fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno e ricevette numerose commissioni da privati e da enti religiosi. Artemisia Gentileschi ebbe anche quattro figli, ma solo due sopravvissero: Cristofano e Palmira. Nel 1621 tornò a Roma con la famiglia, ma non trovò lo stesso successo che aveva avuto a Firenze. Il suo stile era cambiato: le sue figure erano più morbide e luminose, i colori più delicati, i temi più vari. Dipinse soggetti mitologici, allegorici e sacri, come “Venere dormiente”, L’Allegoria della Pittura e “La Maddalena penitente”. Collaborò anche con il padre Orazio in alcuni progetti, come la decorazione della volta della Galleria Farnese.

Nel 1627 si recò a Venezia, dove rimase per circa tre anni. Qui entrò in contatto con la cultura artistica locale, caratterizzata da una maggiore libertà e vivacità. Le sue opere di questo periodo mostrano una maggiore attenzione al paesaggio e alla luce, come in “Ester ed Assuero” e Betsabea al bagno. Nel 1630, Artemisia Gentileschi si stabilì definitivamente a Napoli, dove trovò un ambiente favorevole e una grande richiesta di opere. Napoli era allora la città più popolosa e cosmopolita d’Europa, e ospitava numerosi artisti di diverse scuole e tendenze. Artemisia si inserì in questo contesto con la sua personalità e il suo talento, e divenne una delle pittrici più apprezzate e richieste della città. Ricevette commissioni da nobili, religiosi e mercanti, sia napoletani che stranieri. Dipinse opere di grande formato e di elevata qualità, come “L’Annunciazione”, “La Nascita di San Giovanni Battista” e San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli. Quest’ultima fu la sua prima opera per una chiesa pubblica, la cattedrale di Pozzuoli, e rappresenta il santo patrono di Napoli che sfida i leoni nell’arena.

Nel 1638 la pittrice seguì il padre Orazio a Londra, dove era stato chiamato dal re Carlo I d’Inghilterra per lavorare alla decorazione della Queen’s House a Greenwich. Qui dipinse alcune opere per la corte, come “Allegoria della Pace e delle Arti” e Autoritratto come martire. Collaborò anche con il padre nella realizzazione di un grande soffitto allegorico per la Great Hall del palazzo, ma Orazio morì nel 1639, lasciando incompiuto il lavoro. Artemisia lo terminò da sola e tornò a Napoli nel 1640. Gli ultimi anni della vita dell’artista sono poco documentati. Sappiamo che continuò a dipingere e a ricevere commissioni, ma anche che dovette affrontare alcuni problemi familiari e finanziari. Suo marito Pierantonio scomparve dalle fonti nel 1649, forse morto o forse separato da lei. Sua figlia Palmira morì nel 1654, lasciandole due nipoti da accudire. Artemisia morì in una data incerta collocabile tra il 1652 e il 1656, probabilmente a causa della peste che colpì Napoli in quegli anni. Fu sepolta nella chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, ma la sua tomba andò perduta con la demolizione della chiesa negli anni ’50.

La figura di Artemisia Gentileschi è stata a lungo trascurata o distorta dalla critica, che ha privilegiato gli aspetti biografici e scandalistici a scapito della sua arte. Solo nel Novecento si è rivalutata la sua importanza come pittrice di scuola caravaggesca e come testimone del suo tempo. Le sue opere esprimono una sensibilità e una forza uniche, frutto della sua esperienza di donna e di artista.

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