I sentieri urbani tra passato e futuro

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La pianta incisa da Étienne Dupérac e stampata a Roma nel 1566 da Antoine Lafréry è la principale rappresentazione cinquecentesca di Napoli.

I greci fondatori di Neapolis furono i primi a guardare con interesse quella dolce collina ad ovest della Acropoli che digradava verso la città appena fondata. Col suo fianco perfettamente esposto ai raggi solari sarebbe stata l’ideale per piantarci gli arbusti sacri agli Dei: la vite e l’ulivo. Chiamarono quel colle Bomòs (pronunciandolo vomos), cioè altura sacra, e iniziarono a costruire un sentiero tra alberi e rocce scoscese, per raggiungere la sommità. In epoca romana, sotto l’imperatore Nerva, la stradina fu allargata nell’ambito della costruzione dell’asse viario “Puteolis Neapolis per Collem” (testimonianze archeologiche evidenti sono affiorate durante la realizzazione della fermata “Salvator Rosa” del metrò) per collegare il porto di Napoli a quello di Pozzuoli, scavalcando la collina.

Lungo questo percorso iniziarono a fiorire i primi villaggi di contadini e allevatori e gli scambi di merce con la città divennero intensi. Dopo la caduta dell’impero romano, però, quel fiorente asse viario si ridusse ad un impervio sentiero quasi impraticabile. Fu fatto allargare e ripulire, nel 1385, contestualmente alla costruzione della Certosa di San Martino e del Castello Belforte (oggi Sant’Elmo). Per agevolare la comunicazione con queste strutture, fu creata, ad opera dell’architetto Tino da Camaino, una nuova via d’accesso alla collina, un sistema di scalinate e discese fino al centro di Napoli: la pedamentina di San Martino. Invece l’antico percorso romano fu oggetto di importanti lavori in età aragonese. Per consentire l’allargamento della strada vennero tombati i ruscelli usati dalle mitiche lavandaie del Vomero e la famosa villanella, da loro cantata, (considerata la prima canzone napoletana) non sarebbe altro che una canzone di protesta contro re Alfonso d’Aragona, che aveva promesso alle donne fazzoletti di terra da coltivare in cambio della rimozione dei ruscelli. Naturalmente la promessa del re non fu mantenuta e le lavandaie si trasferirono poco più avanti sui gradoni nominati “imbrecciata del Petraio”, nei pressi della chiesa di Santa Maria Apparente.

Nel 1556 il sentiero diventa una vera strada. Il viceré Don Pedro Alvarez de Toledo, infatti, volle espandere la città verso la collina, che ospitava ormai da secoli campi coltivati, per sfamare le truppe acquartierate in città. La via, che si snodava in salita tra orti e vigneti, venne chiamata “Infrascata” (‘a ‘nfrascata in napoletano) e compare già con questo nome nella pianta Dupérac-Lafrery del 1538. Molte sono le ipotesi etimologiche per il toponimo della strada che ricalca l’attuale percorso di via Salvator Rosa: la più accreditata fa derivare il nome dalle frasche dei tanti alberi presenti lungo il percorso. Secondo lo storiografo Salazar, invece, il nome deriverebbe dalla famiglia romana De Infrascato che aveva vasti possedimenti in zona (come si evince dagli antichi atti notarili conservati nella chiesa di San Liborio alla Pignasecca). L’ultima (o forse la prima?) ipotesi farebbe risalire il nome alle diverse osterie che sorgevano nella zona e che esponevano come insegna, appunto, una frasca di alloro. Molti infatti erano i napoletani che per secoli si recavano per una “scampagnat ‘a ‘Nfrascata”, per assaggiare i pregiati vini “fravulella” e “falanghina” che vi si producevano.

Un ingegnoso servizio di risalita dell’erta fu inventato dai popolani: dei muli addestrati facevano la spola tra le attuali via Pessina e piazza Mazzini, carichi di merce o passeggeri fino al 1888, quando inaugurarono una linea di tram a vapore che facevano lo stesso percorso, sicuramente in modo molto più rumoroso e meno pittoresco.

Tanti furono i patrizi che scelsero l’Infrascata come luogo di villeggiatura e tanti furono i palazzi costruiti a partire dal XVII secolo. Tra questi ricordiamo Villa Ricciardi, che ospitò Leopardi e Dumas, la magnifica dimora neoclassica dei marchesi Genzano-Majo, costruita dall’architetto Antonio Nicolini (autore della facciata del teatro San Carlo), dove Gaetano Donizetti compose la “Lucia di Lammermoor” nel 1835. Il musicista bergamasco era tanto innamorato della ‘nfrascata che le dedicò una serie di ariette e duetti riuniti sotto il nome di “Soirèes d’Automne á l’infrascata”.

L’esplosione demografica del XVIII secolo causò un forte inurbamento della zona che ormai era divenuta l’unica arteria di collegamento tra il Vomero e il centro. Mentre le case e le chiese venivano costruite, la campagna arretrava sempre più verso la sommità della collina, per scomparire quasi del tutto nel secolo scorso a causa della cementificazione selvaggia, così come sparì il toponimo “Nfrascata” nel 1869 per divenire via Salvator Rosa.

Ci piace ricordare che esiste un progetto recente del Comune di Napoli che prevede la riqualificazione e rifunzionalizzazione delle zone di cerniera tra i quartieri del centro storico e la parte collinare della città attraverso la valorizzazione di scale, gradoni e di “sentieri urbani” recuperabili e destinabili a passeggiate e trekking cittadino.  

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