Canta Napoli: crimini d’amore

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Cercare il denominatore comune di antiche canzoni napoletane può essere gratificante, se la ricerca conduce ad un risultato degno di essere condiviso. Operazioni di questo tipo nascono per lo più da accostamenti del tutto occasionali, ascoltando due o più canzoni tra le quali pare di scorgere un nesso nella musica o nei testi. Spesso questi parallelismi si rivelano infondati e allora conviene ritirarsi riconoscendo l’inconsistenza dell’intuizione iniziale. In altri casi un risultato, sia pure di modesta portata, conferma la validità della premessa.

È questo il caso di alcune canzoni napoletane del primo Ottocento e quindi precedenti il periodo aureo della canzone classica napoletana. Queste canzoni hanno tutte un tema melodico riconducibile all’ “opera seria” così come tante altre, di argomento più futile nate nello stesso periodo, guardano all’ “opera buffa”. Spesso, anche nel nostro caso, gli autori di queste musiche sono rimasti ignoti, forse proprio perché c’era un flusso naturale delle melodie dal teatro d’opera ai salotti, alle strade, alle piazze ed ai vicoli e quindi non si può escludere che i temi musicali di queste canzoni siano stati semplicemente copiati da arie operistiche, magari appena un po’ modificate, senza per questo incorrere in sanzioni o in fastidi giudiziari legati alla tutela dei diritti d’autore, allora molto labile.

Il caso più noto tra questi processi di appropriazione popolare riguarda senza alcun dubbio “Te voglio bene assaje”, composta nel 1835 dall’ottico Raffaele Sacco. Sulla facciata della sua bottega di via Capitelli, dove i suoi discendenti ancora lavorano, fu apposta una targa marmorea che recita: «Questa sua onorata bottega Raffaele Sacco ottico poeta scienziato accademico inventore allietò del canto di Te Voglio Bene Assaje la prima canzone che con le melodie di Gaetano Donizetti nel 1835 movendo l’estro popolare fece della tradizionale Piedigrotta la festa di Napoli canora fascinosa nel mondo». Donizetti era bergamasco ma trascorse molti anni a Napoli componendo anche alcune canzoni in dialetto tuttora presenti nel repertorio di celebri cantanti d’opera (“Me voglio fa ‘na casa”, “La Torre de Biasone”). All’ ex-sovrintendente del Teatro San Carlo, Francesco Canessa, va il merito di aver rintracciato, in tempi più recenti, la fonte cui Sacco aveva verosimilmente attinto per la creazione di uno dei più grandi successi mondiali della canzone napoletana. Si tratta di un duetto tratto da “Il furioso all’isola di Santo Domingo” (a partire dal minuto 0,36) che aveva esordito a Roma nel 1932. Non sorprenda il titolo esotico e avventuroso usato da Donizetti che, tra i più prolifici autori del melodramma italiano, compose circa 85 opere liriche i cui titoli (e quindi anche le vicende) spaziano un po’ dovunque.  

Non ha goduto della stessa fortuna filologica un’altra celeberrima canzone di quegli stessi anni, “Fenesta ca lucive”: la tradizionale attribuzione a Vincenzo Bellini, dovuta alla caratteristica linea melodica del grande operista catanese, non è stata mai provata. Ma i suoi versi lugubri, che accompagnano la scoperta della morte prematura della donna amata, richiamano fatalmente lo stesso clima delle canzoni che vogliamo ricordare. Composte qualche decennio prima, accarezzano il tema della morte, del delitto passionale generato dalla gelosia, dal sospetto e dal tradimento.

La più antica delle tre, “Cannetella”, dalla linea melodica cantilenante che fa pensare ad un possibile influsso popolare, è null’altro che un “avvertimento” alla donna amata, sospettata di volersi concedere ad un diverso spasimante: dovesse sbagliare la scelta, “…quanto sango scurrarrà”. Una notazione di natura linguistica merita l’uso di termini totalmente dimenticati come “zimeo” e “chiafeo” per i quali rinviamo alla traduzione di cui sopra.

Appena un po’ diversa è la vicenda narrata in “Raziella”, capolavoro assoluto di più evidente estrazione operistica. Qui c’è un amante realmente ed insospettabilmente tradito, che medita di mettere fine alla storia nella maniera più cruenta “…o moro acciso o m’aggia vennecà”. Anche qui non guasta sottolineare la presenza di parole ormai dimenticate come “schitto” che vuol dire “soltanto”.

La meno antica, ed anche la più nota, delle canzoni prese in esame è “Lu Cardillo” nella quale l’innamorato istruisce il simpatico volatile canterino perché stia vicino, lui che lo può, alla bella amata evidentemente preclusa alla vista del suo spasimante, riferendogli poi ogni cosa. Nel caso il cardillo sorprendesse la bella mentre si concede carnalmente, sarà immediatamente armato di un coltello ed incaricato di lavare l’onta: “…’nficcancillo deritto a lo core e lo sango tu mm’haje da portá”.

Il filo rosso che unisce questi capolavori della canzone napoletana è dunque quello che veniva definito “delitto d’onore” e comportava pene risibili (art. 587 del Codice Rocco, da tre a sette anni di reclusione). Oggi le pene sono certamente più serie ma evidentemente non costituiscono un deterrente sufficiente a fermare il dilagante fenomeno dei femminicidi. La soluzione, se c’è, va ricercata nella riedificazione di valori morali e civili ma soprattutto nell’educazione alla gestione dei sentimenti. E quindi il percorso sarà lungo e accidentato perché coinvolge famiglie, scuola e mezzi di comunicazione.

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