Riflessioni sull’aldilà e l’aldiquà

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Gustave Doré, Caronte, illustrazione per la Divina Commedia dantesca.

É insito nella natura umana il bisogno di porsi domande; è uno stimolo che, nel corso dei millenni, ha fatto sì che alcuni uomini più riflessivi dedicassero la loro intera vita alla ricerca di risposte che potessero giustificare la nostra esistenza, le sue finalità, l’autore di tutto ciò che esiste, in armonia con il detto ex nihilo nihil fit, scaturito dalla mente fertilissima, prima di Parmenide e poi di Tito Lucrezio Caro.

Non c’è nessun essere intelligente che si accinga a realizzare qualcosa senza avere uno scopo, un traguardo, un obiettivo, una meta. È questo, sin dall’antichità, il quesito che gli esseri umani si sono posti. Non avendo le conoscenze di cui disponiamo oggi, e alzando gli occhi verso l’immensità della volta celeste, fu quasi del tutto naturale che ne traessero la conclusione che tutto ciò che esisteva, l’infinito universo, il pianeta su cui viviamo, e tutto ciò che lo popola lo si dovesse ad un Ente Supremo, che aveva portato tutto all’esistenza per portare a compimento il suo piano. Ma poiché nessuno ha mai conosciuto e mai conoscerà questo piano, allora bisogna darsi una risposta da sé stessi, risposta che, inevitabilmente, risente della limitatezza della nostra vita e della inconoscibilità di ciò che esiste al di fuori della nostra limitata portata.

A quest’essere supremamente intelligente, creatore e artefice del creato gli uomini hanno attribuito il nome di “dio”, anche se declinato in centinaia di forme diverse. Allora è a questo personaggio – assumendo che esista – che bisogna chiedere il perché delle contraddizioni, delle incoerenze, delle aporie, delle sofferenze cui la razza umana e ogni specie animale sono sottoposti, per, alla fine, ritornare alla terra da cui siamo stati tratti.

Da occidentali cercheremo le risposte nel libro di cui abbiamo più volte parlato e che costituisce l’unica opera redatta da mano umana, ma che, secondo alcuni, è direttamente dettata da Dio e pertanto non può errare. Seguendo l’ordine delle attività divine fin dagli albori, apprendiamo dal primo libro delle Scritture Ebraiche che era volontà di Dio che gli esseri umani avessero la vita eterna, che si moltiplicassero, riempissero la terra, che facessero uso delle sue risorse naturali per mantenersi in vita, eccettuata la carne di esseri viventi, e tanto meno il loro sangue. Ma è a questo punto che cominciano a sorgere problemi. Poiché, sin da quando eravamo ancora ominidi, l’esperienza vissuta per centinaia di migliaia di anni da tutti, nessuno escluso, è la morte, sia degli uomini che degli animali, se ne potrebbe dedurre che qualcosa nel proposito di Dio si è inceppata; e si tenga anche conto del fatto che non pervengono alla loro fine le sole creature viventi, in quanto nello sconfinato universo, nascono e muoiono infinite stelle, sistemi solari, galassie. La domanda, pertanto, è: perché hai creato tutto questo se poi tutto svanirà, non esisterà più? Si potrebbe pensare che la causa della morte dell’intera razza umana sia stata la disubbidienza del “primo uomo”, Adamo, al quale fu chiaramente detto che, se avesse trasgredito, sarebbe morto, altrimenti sarebbe vissuto per sempre. Sicché, per una minima trasgressione (dare un morso a un frutto), il Creatore di tutte cose condannò a morte senza appello miliardi di essere umani, colpevoli soltanto di avere avuto un antenato non troppo ligio alle disposizioni ricevute. A parte il fatto che questa sia stata un’ingiustizia enorme, per molti millenni gli esseri umani si attaccarono a questa spiegazione – che fa acqua da tutte le parti – per darsi una risposta al perché la morte, la sofferenza, il dolore.

Facendo adesso un salto in avanti di parecchi secoli, quando il cristianesimo era ormai divenuto la religione più importante dell’impero romano, ci poniamo la domanda: in che cosa era consistita la profonda, radicale modifica del piano primigenio di Dio? È ormai da duemila anni che a tutte le generazioni umane succedutesi è stato insegnato una sorta di “catechismo” che non ha niente a che spartire con la volontà iniziale del Creatore. Semplificando al massimo potremmo così descrivere questo nuovo “catechismo”. Dio, nonostante la condanna a morte di Adamo e discendenti, elaborò un disegno profondamente diverso. Adesso non esisteva più solo il pianeta terra creato per ospitare la vita umana e animale; adesso esisteva un luogo in cui il primo tipo di vita, fatto di carne e sangue, avrebbe ceduto il posto al secondo, che prevedeva una vita senza fine in qualche luogo immateriale, in un “regno dei cieli”, nel quale esistevano tre tipi di vita, e che i teologi, motu proprio, hanno identificato con (1) paradiso, (2) purgatorio, (3) inferno. Della vita in paradiso non sappiamo niente: cosa faranno le “anime” o “spiriti” ad esso consegnati; di quella in purgatorio sappiamo men che meno, perché dell’esistenza di questo luogo non si trova il minimo cenno in tutte le Scritture Greche, né uscì mai dalla bocca di Gesù o di alcuno dei suoi discepoli. Il termine ci suggerisce che dovrebbe essere un luogo nel quale, sottoposti ad alcune pene, i peccatori di peccati perdonabili trascorrano un indefinito periodo di tempo, necessario per “purgarsi”, “ripulirsi” dal peccato, per poi, al tempo opportuno, una volta scontata la pena e purificati, trasferirsi in paradiso. Infine c’è l’inferno, del tutto incompatibile con le caratteristiche del Creatore. L’inferno, o Geenna, è un luogo nel quale le “anime” saranno tormentate per l’eternità, in preda a sofferenze atroci e senza un barlume di speranza di uscirne. Nemmeno Adolf Eichmann avrebbe potuto escogitare una punizione del genere, disumana e senza pietà.

Ci troviamo quindi di fronte a questo schema: l’uomo muore, ma la sua parte spirituale, la sua “anima”, no. Per essa ci sono tre possibili destinazioni: paradiso, purgatorio, inferno. Un totale sovvertimento del proposito originale, di una vita eterna sulla terra (ci si può anche chiedere come avrebbe potuto la terra sostenere miliardi e miliardi di persone perché nessuno sarebbe morto) in cambio di una vita eterna nei “cieli”, a far che non si sa bene. Un’altra domanda potrebbe essere: ma se Dio condannò a morte Adamo, che senso hanno le sue parole di Genesi 3:22, 23: “Il Signore Dio disse allora: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi conoscendo il bene e il male! Ora facciamo sì ch’egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita così che ne mangi e viva in eterno!»” È veramente difficile pensare che questa storia sia vera, non è credibile nemmeno come fiaba per bambini; ma come: Dio lo condanna a morte, ma se Adamo fosse riuscito a sgraffignare il frutto di un altro albero, Dio non avrebbe potuto più farlo morire? E non v’è dubbio che gli anonimi autori di questa parte di Genesi credevano che veramente esistessero due alberi letterali, uno della conoscenza e l’altro della vita. E che per impedire ad Adamo di cogliere il frutto del secondo, furono collocati due cherubini all’ingresso dell’Eden che, armati di spada fiammeggiante avrebbero impedito l’ingresso al trasgressore.

Tornando un po’ indietro, da anime semplici quali siamo, chiediamo: se Dio aveva elaborato una soluzione per non mandare a ramengo tutti i suoi propositi, perché questa soluzione prevedeva inesorabilmente la morte di Cristo, dopo atroci sofferenze? Perché era necessario, seguendo la millenaria usanza mesopotamica, versare il sangue di qualcuno per ottenere il perdono dei peccati di altri. Praticamente, un’applicazione pratica della legge del taglione (Deuteronomio 19:21) e la riproposizione dei sacrifici umani, che tanto spazio avevano avuto nella storia delle religioni, secondo la quale solo se vi è effusione di sangue innocente può esservi perdono. Anche questa fa parte di un rito praticato pressoché in tutte le culture religiose del mondo antico che il Dio d’Israele, o meglio gli estensori del Pentateuco, fecero proprio, confidando nel potere espiatorio del sangue, idea di chiara matrice “pagana”, ovvero umana. Anche se a noi può sembrare strano e perfino disumano, l’odore delle bestie scannate e offerte a Dio in sacrificio gli era così gradito che in Genesi 8:21 è scritto che alle narici di Dio l’odore degli animali scannati e bruciati era “piacevole”, “riposante”, “soave fragranza”. Le narici, ovviamente, presuppongono un naso e tutto il resto. Questo Dio è totalmente antropomorfo, quindi, perché era l’unico modo in cui l’uomo avrebbe potuto rappresentarlo. Come si fa a dipingere, scolpire, disegnare un’anima, uno spirito? Continuiamo adesso a permetterci sommessamente di esporre una nostra riflessione, eccola:

Dio aveva deciso di creare l’universo, la terra che ne fa parte, e di popolarla di essere viventi, uomini e animali. La vita degli uomini avrebbe dovuto essere eterna in un luogo meraviglioso chiamato Eden, dove tutto era in armonia con Dio. Ma, purtroppo c’è un ma, e cioè che una delle tante creature spirituali da lui create – per intenderci, un angelo – si intrufolò dentro un povero serpente e il resto lo sappiamo. In quel preciso istante il proposito originale di Dio andò (mi si permetta la battutaccia) a farsi benedire, e bisognò elaborarne un altro. Quest’altro prevedeva che l’umanità continuasse a procreare sulla terra, a soffrire per i molteplici mali che affliggono la “carne”, che si dilaniasse con guerre e atrocità varie, per poi morire sulla terra, e continuare a vivere disincarnata in quello che è stato definito “l’aldilà”. Non è possibile evitare di chiedersi il perché di questo percorso così tortuoso e doloroso, quando l’Onnipotente, cioè che può tutto, avrebbe potuto scegliere una via indolore. Ritornando all’aldilà, ci sono diversi aldilà, per esempio l’aldilà cattolico è costellato di santi, madonne beati e da tutta una pletora di “anime belle” alle quali rivolgersi per impetrare grazie e sollievo.

La storia umana documentata, però, conferma che mai a nessuna richiesta partita dalla terra sia pervenuta risposta dal “cielo”, ma la dottrina assume grande importanza per chi gestisce la materia, dai papi in giù, che si sono assunti l’oneroso incarico di benedire e assolvere, per conto di Dio, il peccatore pentito che confessa il o i suoi peccati. L’assoluzione garantisce il perdono divino e la speranza del paradiso dove vivere in eterno nella pace e nella felicità e senza l’impiccio di un corpo di carne che così tante difficoltà ha creato sin dall’inizio. Soluzione piuttosto farraginosa, quindi, che ci viene difficile attribuire a un dio con le caratteristiche che ci hanno insegnato su di lui, a meno che – come è in realtà – questo fantomatico dio non esista e tutto il castello di religioni, credenze, norme, regole, sia di fattura esclusivamente umana ed abbia ottenuto lo scopo di tenere sottomessi per secoli masse di credenti, non solo nell’antichità ma anche oggi, fra tutti i popoli che aderiscono alla religione di Maometto che, ancorata a precetti vecchi di secoli, rappresenta un serio ostacolo allo sviluppo di una coscienza libera, sganciata da dogmi e divieti.

Poc’anzi abbiamo fatto riferimento al cattolicesimo e al suo aldilà; un aldilà popolatissimo da una congerie di personaggi specializzati in miracoli ad personam. Solo in Italia la fede religiosa avrebbe potuto produrre i santi con la specializzazione. Per intenderci, il cattolico medio quando ha bisogno di qualcosa non si rivolge a Dio, ma ad un santo specifico. Facciamo un breve elenco: Antonio Abate è il patrono degli animali; Antonio di Padova specializzato in guarigioni è fra i più gettonati; Cosma e Damiano tutelano la medicina; Lucia, la protettrice degli oculisti; Maria di Loreto è la patrona dell’aviazione; Rita, definita la santa degli impossibili, che spazia dalle guarigioni al ruolo di mallevadrice degli innamorati; Rocco, detto il virologo di Dio, richiestissimo durante l’epidemia di Covid, la Madonna di Lourdes, guaritrice; la Madonna di Fatima, specialista in apparizioni, e centinaia di altri. Senza tema d’essere smentito, credo che si possa dire che il cattolicesimo mediterraneo è l’erede diretto dei vari paganesimi dei secoli scorsi, presso i quali allignava ogni sorta di taumaturgo, o comunque di chi poteva soccorrere durante le difficoltà. Praticamente un cristianesimo do ut des, praticatissimo nelle nostre lande, ma anche sintomo di una fede del tutto particolare, una fede che, se non riceve risposte, è pronta a cambiare bandiera (o santo).

Ritornando al tema principale di questo scritto, non possiamo trascurare, in quanto molto importante: il rapporto di Dio con la scienza. Mi sovviene al riguardo la risposta che il grande Pierre-Simon Laplace diede alla domanda postagli da Napoleone sul ruolo di Dio nella meccanica celeste: “Non ho bisogno di questa ipotesi”, fu la secca e incisiva risposta. Da quel tempo a oggi la scienza ha fatto enormi progressi, e man mano che questi progredivano, la fede retrocedeva, perché la scienza è in grado di dare le risposte che la religione è incapace di formulare. Un fondamentalista religioso, per esempio, è costretto, quando si parla della creazione, a scegliere fra Darwin e Dio, e con assoluta certezza è dio lo sconfitto. Scrive Giovanni Filoramo nel suo Ipotesi Dio (Il Mulino, 2016) che assistiamo a “una conquista progressiva, da parte delle varie scienze fisiche, di territori che per secoli erano stati dominio della Parola rivelata dalla Bibbia, più precisamente delle gerarchie ecclesiastiche e degli interpreti autorizzati delle Scritture”.

Ci sembra appropriata una conclusione riferendoci ancora una volta a Reza Aslan che scrive: “È innegabile che la credenza religiosa è talmente diffusa da doversi considerare un aspetto fondamentale dell’esperienza umana. L’uomo è Homo religiosus, non nel suo desiderio di fedi o istituzioni, non nella sua dedizione a specifiche divinità e teologie, ma nel suo sforzo esistenziale verso la trascendenza; verso ciò che si trova al di là del mondo manifesto. Se la propensione alla credenza religiosa è insita nella nostra specie, allora, ragionavano gli studiosi, dev’essere un prodotto dell’evoluzione umana. Dev’esserci in essa un vantaggio adattativo. In caso contrario la religione non avrebbe motivo di esistere”.

1 commento su “Riflessioni sull’aldilà e l’aldiquà”

  1. elio mottola

    Complimenti vivissimi all’amico Sergio per queste riflessioni che ho letto con (giustificato) ritardo. L’autore si è superato innervando l’abituale profondità, competenza e sapidità delle sue speculazioni con un’ironia piacevolissima e confortante.

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