The social dilemma

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“Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione”. Inizia con questa frase di Senofonte il documentario investigativo The social dilemma di Jeff Orlowski, tra i 10 film/documentari più visti su Netflix. Ebbene questa frase è indicativa per mostrare agli spettatori quanto l’uomo abbia spinto la tecnologia oltre una soglia inaspettata. The social dilemma, attraverso le testimonianze di ex fondatori, manager e addetti ai lavori dei social più utilizzati, racconta quel limite che abbiamo superato. Non vi aspettate di trovare le solite domande tipo: “quanto tempo trascorrete sui social”? Oppure “qual è la prima cosa che fate al mattino appena svegli?” (guardare lo schermo del vostro cellulare). The social dilemma affronta a chiare lettere la manipolazione che c’è dietro i social, i cambiamenti che stanno apportando a livello neuronale ma anche le difficoltà interpersonali, che aumentano con l’avanzare degli anni.

Bizzarro è il fatto che questo documentario non dà la parola ai nemici delle tecnologie ma a chi invece le ha inventate e sviluppate, sino ad accorgersi che qualcosa stava andando storto. La loro testimonianza dunque è frutto di un ripensamento. Emblematica è nel documentario la scena in cui l’inventore del famoso pollice all’insù, ovvero il like, spiega come volendo creare uno strumento che trasmettesse positività, ci si è accorti, con il passare di pochi anni, che la mancanza di quel like, dunque di quell’approvazione, abbia gettato in pasto alla disperazione e alla depressione milioni di giovani utenti. Utenti che vedevano nel parere degli altri, attraverso quel pollice, la loro unica forma di apprezzamento all’interno della società.

Oltre però all’effetto dannoso sulle nuove generazioni, capiamo che siamo tutti sotto attacco. I social media contribuiscono a creare o distruggere relazioni e comportamenti umani, e sono in grado di organizzare il tempo e i piaceri. Ognuno di noi si crea una gabbia apparentemente felice in cui si circonda di persone che secondo noi possono essere simili a noi, o che hanno gli stessi interessi e pareri. Camminiamo, ci stendiamo a letto, guardiamo un film, in bagno, prima di entrare al supermercato, ognuna di queste azioni è fatta nel 90% dei casi con uno smartphone in mano, seppur per pochi secondi, ripetiamo quest’azione più volte: prendere il cellulare dalla tasca; finché non è lo smartphone a chiamare noi, con una vibrazione, un suono, ci riporta a scorrere la home, a visualizzare un messaggio. Divertente è sapere che mentre noi facciamo tutto questo a qualcuno si gonfia il portafoglio. Ma oltre al ricavo spietato di poche centinaia di persone, in più forniamo tutti i nostri dati, diciamo indirettamente quali sono i nostri gusti, cosa ci piace e cosa odiamo.

Mi collego, ritornando al documentario, ad una scena che si ripete più volte: viene mostrato il ruolo degli ingegneri di Google, Facebook, Instagram etc. che, nel nostro piccolo mondo virtuale, ci fanno trovare nella nostra bacheca tutto quello che noi siamo, che ci piace o meno. Come fanno? Semplice: dopo che, con un link o un commento, mostriamo il nostro sostegno o meno, è un gioco da ragazzi avere il nostro identikit, perché glielo abbiamo fornito noi. Neanche quegli stessi progettisti si capacitavano di come hanno portato le macchine a sviluppare un’elaborazione di dati così accurata, perfetta. «La velocità di elaborazione dei computer è cresciuta dal 1960 mille miliardi di volte, quella di un’auto è al massimo raddoppiata», afferma Randima Fernando, già Product Manager di NVIDIA ed Executive Director di Mindful school & Co-Funder del Center for Human Technology, il tutto sottolineando che, mentre la tecnologia dal 1960 ad oggi è cresciuta, il nostro cervello non si è sviluppato affatto.

In parole povere, le testimonianze in The social dilemma ci spiegano come i social sfruttino le nostre debolezze psicologiche rendendoci tutti allegramente dipendenti. È però interessante apprendere che la maggior parte degli intervistati, o di chi ad esempio lavora alla Silicon Valley, vieti ai propri figli l’uso degli smartphone. E come accade anche nel documentario, è doveroso condividere una serie di dati: negli ultimi 10 anni il tasso di suicidi degli adolescenti è aumentato del 70% per i ragazzi in età compresa tra i 15 e i 19 anni; mentre del 154% tra i bambini dai 10 ai 14 anni. Senza contare che la nuova generazione già dal secondo anno di età “possiede” Youtube for Kids, riconoscendolo come uno strumento di piacere o intrattenimento. Ad oggi dunque la domanda non è se abbiamo o meno la volontà di invertire rotta, piuttosto: è possibile cambiare questo trend o già non c’è più via d’uscita?

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