C’è chi dice no

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La lucida e concisa analisi contenuta nell’articolo del nostro direttore, dall’appropriatissimo titolo “Un pezzo di un puzzle che non c’è”, a proposito del quadro istituzionale nel quale va ad impattare la riduzione del numero dei parlamentari, merita qualche ulteriore osservazione che potrà tornare utile per sostenere la causa del “no” all’imminente referendum. Circa la consistenza del taglio, limitandosi per semplicità alla sola Camera dei deputati, nel 1948 ventotto milioni di elettori (donne incluse, dopo l’approvazione del suffragio universale) eleggevano 572 deputati (passarono a 630 nel 1963) e il rapporto era di circa 48.000 elettori per deputato. Oggi, essendo cresciuto a 51 milioni il numero degli elettori, il rapporto è diventato pari a 81.000 elettori per deputato. La riduzione porterà, se confermata dal referendum, il rapporto a 127.000 elettori per ogni deputato. Con un rapporto quasi triplicato sarà quindi più difficile per una lista locale o per un partito che intendesse rappresentare specifiche minoranze, etniche, religiose o professionali conquistare un seggio. Secondo numerosi esperti sarebbero particolarmente penalizzate le zone a scarsa urbanizzazione.

Può essere utile ricordare che il favoloso risparmio sbandierato dai promotori ammonta esattamente tra deputati e senatori a soli 285 milioni (secondo il calcolo di Cottarelli giustamente richiamato nell’articolo in riferimento) e cioè un bruscolino (circa un euro all’anno per abitante) se si considera che il bilancio dello Stato per il 2020 ammonta alla bellezza di 672.000 miliardi di euro! Si sarebbero realizzati risparmi più consistenti con l’abolizione del Senato, contenuta nella riforma pasticciata di Renzi, perché azzerava anche i costi di gestione dell’apparato burocratico di Palazzo Madama.

Ma ancor più consistente sarebbe il risparmio se si tentasse di ridurre il numero dei consiglieri regionali. Attualmente infatti il rapporto tra elettori e consiglieri è vario e sempre generoso: in Emilia-Romagna è di 69.000 elettori per consigliere, mentre in Lombardia è di 95.000, in Campania di 90.000. Per non parlare delle regioni a statuto speciale tra le quali spicca, come è immaginabile, la Sicilia che “vanta”, esempio di massima rappresentatività democratica, un rapporto di appena 54.000 elettori per consigliere; questo dal 2013, perché precedentemente in Sicilia il rapporto era di appena 43.000 elettori per “deputato”.

Anche la fattibilità dei tagli presenta, oltre agli ostacoli individuati da Achille Aveta, qualche incognita: la ridefinizione dei collegi non è un semplice fatto tecnico perché implica scelte politiche che potrebbero avvantaggiare alcune forze a danno di altre. E poi c’è la legge elettorale che dovrà essere necessariamente proporzionale, se si vuole recuperare un pezzetto di rappresentatività. Questi interventi avrebbero dovuto accompagnare l’introduzione dei tagli (completando il “puzzle”) ed invece si corre il rischio, in caso di vittoria del “si”, che non si possa di fatto votare (condizionando pesantemente, tra l’altro, il potere di scioglimento delle camere del Capo dello Stato).

Sul piano del funzionamento delle istituzioni non sussiste dunque alcuna riserva ad esprimere un secco “no”. Sugli effetti politici del risultato referendario il dibattito è invece aperto e non passa giorno in cui non ci siano prese di posizione a favore del “no”. La cosa riguarda non solo associazione come l’Arci, l’Anpi, le Acli, le “sardine” (ci si attende qualcosa dalla CGIL) ma anche esponenti degli stessi partiti che si sono già espressi per il “si” e finanche un deputato pentastellato, l’avvocato Andrea Colletti (Linkiestadel 7 agosto 2020). Esiste anche qualche posizione di dubbio, come quella espressa su Repubblica da Gustavo Zagrebelsky, autorevole punto di riferimento sulle questioni istituzionali (ed infatti i suoi dubbi sono esclusivamente di natura politica).

Nella confusione che regna sovrana ciascuno tenta di prefigurarsi le situazioni politiche che possono determinarsi all’indomani del referendum e, necessariamente, delle contestuali elezioni regionali.

Ciò che rende problematica la lettura delle possibili prospettive è la trasversalità delle posizioni politiche: il timore di avvantaggiare l’opposizione indurrebbe a chiudere gli occhi sulle probabili disfunzioni istituzionali e ad esprimere un preoccupato “sì”. Così facendo si offre un “assist” anche ai 5 Stelle. Ma anche questo preoccupa non poco: i pentastellati costituiscono sin dalla formazione del governo giallorosso un freno ad ogni seria possibilità di recuperare un po’ di consenso nel Paese e ciò per l’ostinata difesa delle posizioni di principio che ne hanno informato la storia sin dalla nascita del Movimento. Un sconfitta del “si” ricondurrebbe a più miti consigli, insieme alla sicura sconfitta alle regionali, quell’ala del movimento che si ostina a difendere tuttora un identità perduta. Solo una sconfitta del Movimento potrà determinare quella sterzata decisa verso un’alleanza duratura con le altre forze di governo.

La probabile sconfitta del PD alle regionali, da imputare comunque ai 5 Stelle, non cambierebbe di molto le cose: le opposizioni faranno molto chiasso in tutti i casi ma il Governo potrebbe cadere solo se venisse a mancare la maggioranza in Parlamento, cosa possibile per la cocciutaggine dei parlamentari che fanno capo ad illustri statisti come Crimi, la Lezzi e quell’impagabile stratega di Di Battista. Male che andasse, ci sarebbe comunque un governo istituzionale per concludere la legislatura e tentare di non sprecare i finanziamenti europei.

Ma su queste cose i lettori di www.zonagrigia.it hanno tutti gli strumenti per elaborare una propria personale opinione.

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