Canta Napoli … al chiaro di luna

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Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, Il golfo di Napoli, 1841, The Cottage palace museum, Peterhof (Fonte: Wikipedia)

C’è un breve periodo nella canzone napoletana ingiustamente dimenticato. Nato qualche anno dopo la fine dell’ultima guerra e protrattosi grossomodo fino all’exploit di Carosone e di Modugno, vide non poche canzoni con qualche quarto di nobiltà: inizia nel 1950 quando ormai il percorso “classico” si avvia al tramonto con gli ultimi, disillusi capolavori che chiudono la dolorosa parentesi bellica: “Munasterio ‘e Santa Chiara”, “Tammurriata nera”, “Simme ‘e Napule paisà”. Non che la canzone classica fosse definitivamente sepolta: nel solo periodo di cui intendiamo parlare furono composte almeno quattro piccoli capolavori che ne rispettavano i canoni, “ ‘O vascio” (1947), “Serenatella a ‘na cumpagna ‘e scola“ (1947), ‘O ciucciariello” (da cui è tratta la famosa frase cantata sul carrettino dai Fratelli Capone nel film ”Totò, Peppino e la malafemmina“: ‘Na femmena busciarda m’ha lassato”) (1951) e “La pansé” (1953).

L’argomento delle canzoni di questo periodo non si allontana molto dalle consuete corde sentimentali dell’amore, della gelosia, dell’abbandono e del tradimento, ma i testi hanno un tono più confidenziale, meno drammatico e quasi rassegnato, molto diverso (potere di una guerra devastante!) da quello annichilente o appassionato ma anche possessivo e talvolta vendicativo che attraversava il repertorio tradizionale.

Ma la novità più rilevante riguarda la parte musicale ed è l’innesto nella melodia napoletana dei ritmi provenienti da oltreoceano. In realtà lo swing, il fox trot e i ritmi sudamericani si erano già insinuati clandestinamente nella canzone italiana sin dal ventennio autarchico ma con un successo tollerato dal regime (il fox trot divenne, romanamente, il “ballo volpino”).

L’unica canzone classica napoletana nella quale gli autori si erano in passato avvalsi di un ritmo esotico era stata proprio un simbolo come “O Sole mio” che sul finire dell’800 coniugò la sua indimenticabile melodia all’habanera, ritmo di provenienza cubana portato in auge da Bizet nella sua “Carmen” (“E’ l’amore uno strano augello”). Altra, isolatissima eccezione era stata poi nel 1932 “‘A rumba de’ scugnizzi” di Viviani.

La svolta avviene nel 1950 con “Luna rossa”. Non è dato conoscere con certezza se esistessero precedenti in fatto di lune colorate, ma nel film “Sangue e Arena” del 1941 la protagonista, Rita Hayworth, sex symbol degli anni ’40 e ’50, cantava (con la voce di certa Graciella Parraga) una canzone dal titolo “Verde luna” che fece il giro del mondo e decretò il successo internazionale di un film altrimenti banale. Si dà poi il caso che il ritmo di questa canzone fosse una “beguine”, altro ritmo sudamericano che viveva una stagione di particolare fortuna anche grazie ad un brano di Cole Porter del 1944, “Begin the beguine”, che conquistò grande fama anche qui da noi. Bene, “Luna rossa” non solo evoca il fascino inquietante della luna ma il ritmo sul quale poggia è proprio la “beguine”.

Al successo di “Luna rossa” che conquistò, come spesso avveniva all’epoca, anche il pubblico italo-americano d’oltreoceano, fece seguito l’anno dopo “Anema e core”, un successo mondiale, ancora sul ritmo di “beguine”. Dello stesso anno, a riprova di una sorta di fioritura, nacque e spopolò anche “Malafemmina” di Totò, che riesuma il ritmo dell’“habanera” di cui abbiamo già detto. Un’altra bellissima canzone, ancora una “beguine”, “Aggio perduto ‘o suonno” nacque nello stesso 1951 mentre nel 1952 un “fox trot” colpiva nel segno, “Nu quarto ‘e luna”: non c’era la “beguine” ma in compenso ricompariva la luna. Ritroviamo la “beguine” in un altro pezzo dello stesso anno che ebbe anch’esso un grande successo, pur nella sua cupa tristezza, “Sciummo”. Nel 1953 “Te sto aspettanno” è nuovamente una “beguine” che nel 1954 si ricongiunge finalmente alla luna in “Luna Caprese”, mentre nello stesso anno “Malatia” è ancora, ostinatamente, una “beguine”. Il ciclo può ritenersi concluso nel 1955 col “fox troat” “‘Na voce, ‘na chitarra (e ‘o ppoco ‘e luna)” e con la “beguine” “Luna chiara”.

Ciò che unisce le canzoni di questo breve arco temporale (un quinquennio circa), rendendolo diverso da quello che lo aveva preceduto, sono dunque i ritmi di provenienza nord e sud americana, utilizzati sempre come discreto e garbato accompagnamento di melodie spesso ispirate alla luna. Solo due canzoni, tra le più belle della serie, “Desiderio ‘e sole” del 1952 e “Me so ‘mbriacato ‘e sole” del 1954, sono in controtendenza perché dedicate all’astro luminoso che alla luna si oppone, ma hanno entrambe titolo a rientrare nel gruppo perché la prima è, ancora una volta, una “beguine” e la seconda un “fox trot” moderato. “Lusingame” del 1956 e “Felicità” del 1957, rispettivamente un “fox trot” e una “beguine”, rappresentano l’ultima degnissima propaggine del ciclo. Ma aldilà dei ritmi che accomunano tutti i brani ricordati, incuriosisce questa spontanea insistenza sulla luna, “rossa”, “caprese”, “chiara”, intera o ridotta a “ ‘nu quarto”, o addirittura a ” ‘o ppoco”, anche se la sua presenza non era mai mancata in passato (si pensi a capolavori come “Marechiaro”, “Napule ca se nne va”, “Luna nova”). La risposta più probabile è che il richiamo alla luna creasse inconsapevolmente un clima di pace, di languore notturno ma anche di grande suggestione paesaggistica: per una città votata da secoli al turismo il tutto calzava a pennello all’affermazione dei primi “Night Club” a Napoli, ma anche a Capri e a Positano, mete privilegiate di un turismo ricco e talvolta anche raffinato. Da quelle sponde prenderà presto il largo Peppino di Capri adattando, a scapito della corretta pronuncia del nostro dialetto, proprio “Malatia” e “Luna caprese” alla sua chiave  innovativa, mentre sul fronte interpretativo tradizionale si estenderà ad altri cantanti-chitarristi lo stile pulito ma espressivo di Roberto Murolo.

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