Inno alla Gioia

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L’inno nazionale della Repubblica, provvisorio dal 1946, certo non fa onore alla tradizione musicale e poetica dell’Italia con quel suo ritornello così banale da scalcinata banda musicale di paese e le sue frasi roboanti, colonialiste e guerrafondaie, così lontane dallo spirito repubblicano.

Ma un inno è un inno e in qualche modo i cittadini di uno stato, quando risuona, vi si raccolgono. Anche di recente, alla conferenza, agli “stati generali” di villa Pamphilj, nel giugno scorso l’inno di Mameli ha fatto la sua parte fornendo uno spunto ad “effetto” alla non tanto amata Ursula Gertrud von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, che ha pronunciato in italiano la frase: «Grazie a voi l’Europa s’è desta». Visto come stanno andando le cose in Europa, quello della von der Leyen va preso più come un auspicio che come una presa d’atto, anche perché di “desto” nell’Europa economica e monetaria pare ormai rimasto solo l’interesse nazionale. Purtroppo, per tutti, pare che sia sempre più difficile riuscire ad affrontare le tante questioni che attanagliano la vita economica e sociale dei cittadini europei, e non solo, con uno sguardo che vada oltre l’immediato presente.

Ancora una volta pesano i tanti difetti di quegli accordi che portarono alla moneta unica. Inutile dire che grazie all’euro, e alle sue discutibili regole, l’Europa si è salvata da tanti disastri sia come spazio economico comune che come singoli stati aderenti. Altrettanto vero è che tante opportunità di sviluppo e di crescita qualitativa oltre che quantitativa sono state perse.

In Europa sono ancora troppe le differenze istituzionali e organizzative tra i singoli sistemi statali tanto da essere elemento “frenante” per tutti nonostante qualcuno, qualche governo, le rivendichi tanto da considerarle un elemento “propulsivo” per il proprio isolato sviluppo.

Sono passati vent’anni dall’introduzione della moneta unica e non c’è nessun accenno, non emerge nessun tentativo di andare verso una armonizzazione dei singoli sistemi economici e amministrativi e gli stati e i loro governi sono ingabbiati nel riproporsi dell’eterno quesito: essere o non essere uniti.

Ma veniamo ai punti dolenti dai quali si dovrebbe ripartire e che invece la politica ignora.

Innanzitutto, la diversità dei sistemi fiscali. È a nostro avviso drammatico che questa questione riemerga solo perché c’è una trattativa sul recovery fund e che il Governo italiano sia costretto ad usarla come “strumento di scambio” nei confronti di quelli che sono stati definiti paesi “frugali”. Eppure da tempo la questione è stata sollevata se pur a bassa voce (quando i grandi gruppi industriali hanno scelto di stabilire le loro sedi legali in Olanda o in Irlanda), ma nulla è stato per tempo proposto per superare l’assurda situazione della coesistenza, in uno spazio economico comune, di situazioni che rimandano a veri e propri paradisi fiscali. È vero che anche in Italia si ripropone periodicamente una premialità fiscale e contributiva per le aziende che investono in alcune aree del Paese nel tentativo di diminuire il divario tra nord e sud, ma l’Europa ci ha contestato e sanzionato.

Si pone spesso l’accento sul fatto che uno degli assiomi centrali di ogni politica economica, soprattutto in un contesto commerciale ed industriale fortemente turbolento, deve essere quello di ridurre i livelli di incertezza per le imprese e per i capitali. Incertezza sociale, bassa conflittualità, incertezza istituzionale, regole tecnico-amministrative certe, permessi, autorizzazioni e sistema sanzionatorio e, soprattutto, fiscale con la definizione di parametri certi e quindi prevedibili, oltre che bassi, del legittimo prelievo da parte dello stato. Su nessuno di questi punti c’è una politica comune europea. Sono solo intervenuti i ragionieri del pareggio di bilancio che hanno portato in Spagna, in Francia e in Italia alla ridefinizione dei sistemi pensionistici e previdenziali, per il resto poco o nulla. Colpevole non è solo la politica dei partiti o dei gruppi, ma anche quella delle variegate parti sociali. Non esiste un vero sindacato europeo, non esiste una organizzazione europea che rappresenti le imprese industriali. La vera internalizzazione si è realizzata solo nel capitale finanziario che, scaltro e rapido, si intrufola tra gli interstizi di accordi, sistemi giuridici e fiscali per trarne vantaggio. Non siamo uomini di montagna, ma immaginiamo che, quando si affronta una scalata e sopravvengono condizioni atmosferiche avverse, sia essenziale saper valutare quale potrebbe essere il percorso migliore: tornare indietro o proseguire in alto per raggiungere un buon riparo. Come ha anche affermato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in gioco non è questo o quell’accordo, ma il futuro stesso dell’Unione Europea. Provare a ritornare a valle, magari precipitosamente, provocherebbe dei danni terribili con il ritorno delle antiche conflittualità, troppe volte armate e sanguinose, con le super potenze ad est come ad ovest pronte a tirare dalla propria parte questo o quell’altro. Il vero pericolo per l’Europa non è rappresentato dai sovranisti, che non potevano che mostrarsi divisi, confusi e contraddittori in questa crisi internazionale, ma dall’inerzia progettuale e organizzativa di chi prospera nello spazio economico europeo. Non si tratta di cercare la Vittoria e di renderla schiava, come recita l’inno di Mameli, ma di inneggiare alla gioia a “I tuoi incanti tornano a unire ciò che gli usi rigidamente divisero; tutti gli uomini diventano fratelli, dove posa la tua ala soave”, come nell’inno del Parlamento Europea uscito dalla penna di Friedrich Schiller (An die Freude) e dal genio di Ludwig van Beethoven (corale della Nona sinfonia).

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