La svolta inaspettata

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L’assassinio di George Floyd ha suscitato reazioni e proteste ben oltre i confini degli USA. Dell’afroamericano brutalmente ucciso abbiamo già parlato, quello che però non è stato detto è ciò che forse nessuno si aspettava. Le proteste negli USA non accennano a calmarsi e questo è un campanello d’allarme perché dimostra che l’esasperazione della comunità nera negli Stati Uniti d’America è arrivata al limite. Le stazioni di polizia incendiate, i violenti tafferugli, i saccheggi dimostrano che quella che sembra una democrazia stabile e potente è in realtà una bomba ad orologeria, pronta ad esplodere, ed infatti, è esplosa.

Un recente studio di Max Kapustin, direttore della facoltà di criminologia dell’Università di Chicago, ha “contato” i morti ammazzati in un solo giorno in città: domenica 31 maggio sono state uccise 18 persone a Chicago, alcuni decessi collegati alle manifestazioni, altri sono la “normale” routine statunitense. Quanto da tempo ci dicono le statistiche ha “preso forma” in questi giorni di mobilitazione: la grande estensione di povertà e criminalità dilaga negli USA.

Adesso nel paese della libertà si fa sul serio e la mobilitazione di massa ha raggiunto i primi risultati: l’ex agente Derek Chauvin è attualmente accusato di omicidio volontario non premeditato, mentre i suoi tre colleghi presenti al fatto sono imputati per complicità.

Siamo abituati a vedere proteste nascere per poi vederle scomparire pian piano, o per mancanza di progettualità o a causa della repressione poliziesca. Questa volta sembra che le cose stiano andando diversamente e va registrata una capacità di reazione della società americana: non possiamo che augurarci che ciò sia il preludio di reali e più profondi cambiamenti. Alcuni fatti sembrano incoraggianti.

Il consiglio comunale di Minneapolis ha annunciato lo scioglimento del dipartimento di polizia. Da New York trapela che, essendo i “cops” nell’occhio del ciclone, ci sarà un notevole ridimensionamento dei fondi stanziati per i corpi di polizia. Lo ha annunciato il sindaco di New York, Bill de Blasio, in maniera chiara e senza possibilità di equivoci: “tagli al bilancio delle forze dell’ordine, per investire una parte del budget in servizi sociali”. Lo slogan dei manifestanti “De-fund the police” (togliete i fondi alla polizia) sta diventando realtà.

È interessante sottolineare come il web stia diventando sempre più uno strumento utile per far chiarezza su dinamiche tenute “nascoste” almeno sino a poche settimane fa. Si sono moltiplicati, in internet, video di abusi di polizia negli USA, come in altre parti del mondo. Diverse piattaforme, tra cui Netflix, stanno sfornando al momento giusto una vera e propria sfilza di documentari e film sulla tematica razziale (Dal documentario “XIII Emandamento” a “Cop Watchers”).

Ma ancor più indicativa è la “tecnologizzazione della protesta”. Le immagini di milioni di giovani americani in strada, le piazze gremite, hanno reso la protesta “contagiosa”. Così altrove nel mondo si è espressa solidarietà alla causa dei Black Lives Matter. Da Londra a Napoli, da Parigi a Seul, da Amsterdam a Dublino, la lista è lunghissima, tutti uniti in un solo grido: “No Justice No Peace”. Il video che ha infiammato l’America ha innescato una miccia che si sta propagando rapidamente; gli attivisti riunitisi in diverse zone del globo appartengono a percorsi di impegno apparentemente diversi tra loro. Dai giovani dei FFF (Friday for future) ai movimenti per il diritto all’abitare, dai militanti di sinistra ai movimenti antirazzisti. Ognuno cerca di contribuire alla causa, lavando i panni sporchi in famiglia, facendo emergere come il razzismo sia diffuso in tanti paesi che si autodefiniscono civili ed avanzati, compresa l’Italia. Non è di certo un caso che in diverse città si stanno abbattendo le statue dei colonizzatori. Partendo da Boston, è stata decapitata la statua di Cristoforo Colombo. Il 7 giugno, gli attivisti di Bristol (in Inghilterra) hanno gettato nel fiume la statua di Edward Colston, famoso mercante di schiavi. In Belgio, il busto di Leopoldo II è stato ricoperto di vernice rossa e ne è stato coperto il volto con un cappuccio con la scritta: “non riesco a respirare”. Insomma quello che negli USA è diventato il primo punto dell’agenda politica, sta assumendo, con toni diversi, caratteristiche simili in ogni angolo del Pianeta. Il problema delle discriminazioni razziali, unito alle difficoltà economiche che attanagliano troppi strati della popolazione mondiale, sta riemergendo.A Parigi i giovani che abitano le banlieue, i quartieri periferici e malfamati di una delle capitali più gettonate al mondo, sono scesi in strada unendosi all’esasperazione degli americani. La protesta antirazzista al suo interno racchiude non solo la comunità nera, ma anche gli ultimi della società, i poveri, gli emarginati. Per noi che viviamo un periodo storico turbolento sarà interessante vedere come si evolverà questo movimento di dimensioni globali. Un dato sembra certo, nei movimenti che stanno dando un forte scossone al sistema neoliberista, la spontaneità sta vincendo sull’organizzazione. Oramai “I can’t breathe” echeggia nei palazzoni istituzionali di mezzo mondo.

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