Trump nel bunker

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1° giugno 2020. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si è rifugiato in un bunker a causa degli scontri che stanno incendiando l’America. Dal 30 maggio la Casa Bianca ha spento le luci esterne, dopo che un enorme fuoco è stato appiccato nel prato del Campidoglio, bruciando la “prima” bandiera americana. È l’allarme più alto lanciato dai servizi segreti americani dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. Sembra la scena di un film, ma siamo di fronte alla realtà. La stessa realtà che dall’inizio del 2020 ha superato di gran lunga l’immaginazione. Il cuore dell’impero del capitalismo mondiale, ridotto allo slogan “Make America great again”, brucia. In più di 15 stati è stato disposto il coprifuoco. Le telecamere delle più importanti emittenti televisive americane riprendono dall’alto intere città in fiamme titolando i loro servizi con il lancio: “è guerra civile”. A Philadelphia sono state bruciate diverse auto della polizia; a Boston la situazione è degenerata e, dopo numerosi scontri durante la notte, la Casa Bianca ha inviato la Guardia Nazionale a sedare le rivolte. A New York i manifestanti hanno bloccato i ponti da Manhattan, saccheggiato negozi e incendiato numerose auto della polizia. Scontri violentissimi e banche date alle fiamme ad Atlanta, Aurora, Detroit, San Diego e Portland. Gli Stati Uniti sono piombati nel caos. Quello che non ci saremmo mai aspettati di vedere sta accadendo con una velocità impressionante. Avvenimenti che rischiano di tracciare degli scenari completamente nuovi nella storia mondiale.

I fatti che hanno dato vita alla rivolta sono ormai noti e anche in queste pagine ne abbiamo scritto; col trascorrere delle ore stanno emergendo ulteriori dettagli dell’aggressione assassina. “Non riesco a respirare, non respiro, non uccidermi”. Queste le ultime parole di George Floyd, un afroamericano che a seguito di un fermo della polizia, il 25 maggio, davanti al civico 3700 della Chicago Avenue South di Minneapolis, è stato schiacciato al suolo da tre agenti. Uno dei tre premeva con il ginocchio sul collo dell’afroamericano. Nove interminabili minuti di agonia; una scena straziante ripresa da diversi smartphone. Il video, che ha fatto il giro del mondo, negli Stati Uniti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Darnella Frazier, una delle autrici del video più cliccato degli ultimi giorni, affermerà durante un interrogatorio: “la sua testa era talmente schiacciata a terra che gli usciva sangue dal naso”.

Il sogno americano, che ha caratterizzate da sempre la cultura yankee, dentro e fuori le mura di casa, sembra svanire sotto i colpi del razzismo dilagante. Le piazze statunitensi non chiedono solo giustizia per Floyd, ma anche la fine di un sistema secolare, che marca una fastidiosa e sottile linea tra bianchi e neri, quasi sempre sovrapposta alla divisione tra ricchi e poveri. Una linea che sta letteralmente bruciando e che sta facendo emergere anni di soprusi, violenze e abusi. Gli Stati Uniti hanno già conosciuto momenti di grande tensione interna, scontri razziali di massa, scontro tra masse impoverite dal riproporsi di momenti di crisi economica che lasciano da sempre una scia insopportabile di fame e disperazione. Negli anni, anche recenti, tante sono le organizzazioni nate proprio a seguito di episodi di violenza della polizia che hanno determinato rivolte di masse esasperate ed impoverite.

Black Lives Matter”, letteralmente “le vite nere contano”, è un movimento internazionale impegnato nella lotta contro il razzismo. Un movimento che organizza regolarmente manifestazioni e sit-in per denunciare soprattutto le violenze perpetrate dalla polizia ai danni delle comunità afroamericane. Non a caso questo movimento è nato dopo la morte di Trayvon Martin, ucciso nel febbraio 2012 da un poliziotto negli USA. Quell’hastag, che ha dato inizio alle rivendicazioni, ha assunto ancora più valore politico con la morte di altri due giovani afroamericani: Micheal Brown e Eric Garner, anche quest’ultimo soffocato durante un arresto. Secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America (PNAS), la sesta causa di morte negli USA è rappresentata dai fermi di polizia; ma rispetto ai bianchi, gli afroamericani sono 2,5 volte più a rischio. Il dato ancora più allarmante è che il 99% dei poliziotti accusati non riporta condanne penali. Secondo uno studio del Mapping police violence (un collettivo di ricercatori americani) nel 2015 i neri uccisi dalle forze dell’ordine sono stati almeno 346. Nel 2016 meno di un terzo degli afroamericani uccisi dalle forze dell’ordine era sospettato di un crimine non violento. È di fondamentale importanza menzionare anche il lavoro di Copwatch, un’organizzazione di attivisti che dal 1990 sorvegliano l’operato della polizia di New York. (Segnaliamo infatti il mini documentario su Netflix “Cop Watchers”, che può aiutare a far chiarezza sugli arresti a sfondo razziale negli USA).

Ritornando a queste ore, più che interrogarsi sull’utilità della violenza, bisognerebbe far luce sulle cause che hanno generato questa ennesima rivolta. Le auto in fiamme, gli edifici danneggiati, i supermercati saccheggiati sono solo la punta dell’iceberg. Tantissime sono le stelle dell’NBA che si stanno esponendo a favore della causa afroamericana: Michael Jordan, LeBron James, Kareem Abdul-Jabbar, Steph Curry, Stephen Jackson. Anche loro urlano: “enough is enough” (il troppo è troppo). Quello di George Floyd non è un episodio isolato, ma pare essere un’esperienza diffusa che macchia il nome della democrazia, proprio nel Paese etichettato come democrazia mondiale che si vanta di averla inventata e che se ne fa ipocritamente paladino per diffonderla nel mondo. In questi sei giorni di scontri, la protesta non accenna a placarsi. Il bilancio dei morti è salito a 4 e numerosi giornalisti sono stati arrestati; il tutto mentre a Minneapolis, luogo da cui sono partite le rivolte, la casa del poliziotto Derek Chauvin, accusato dell’omicidio di Floyd, è stata incendiata. In vent’anni di carriera nella polizia Chauvin ha collezionato ben 17 denunce per soprusi e violenze ingiustificate.

In queste ore l’unica cosa che il primo cittadino statunitense Donald Trump ha saputo fare è di etichettare un movimento antifascista (Antifa) come organizzazione terroristica. I pugni chiusi dei manifestanti creano scalpore in un Paese che da sempre porta avanti politiche anticomuniste. Sarà interessante ascoltare le dichiarazioni dei leader europei, che hanno inneggiato all’alleato americano come il grande salvatore dal fascismo pur di negare l’importanza e il ruolo delle Resistenze popolari contro l’oppressore nazifascista.

Queste rivolte prefigurano un ribaltamento di posizioni anche nelle prossime elezioni per la Presidenza degli USA? È forse presto per capirlo. Ma pare che lo spettro di un ritorno a “sinistra” nelle prossime elezioni aleggia sulla Casa Bianca Intanto ciò che fa riflettere è che, ancora oggi, di razzismo si muore. Gli ultimi secondi di vita di George sono un pugno nello stomaco, che fanno male al mondo, ma che inevitabilmente colpiscono ancor di più chi viene ghettizzato quotidianamente, semplicemente e banalmente per il colore della pelle.

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