La burocrazia: da castello a rete

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A volte le pastoie burocratiche sembrano labirinti

Sul ruolo della burocrazia studiosi come Max Weber hanno elaborato fondamentali teorie, correlando la comparsa e l’estendersi di questa tipologia organizzativa con lo sviluppo economico (la comparsa della moneta e la necessità di disporre di un apparato di persone che, con continuità e competenza, si occupasse degli affari amministrativi), individuando già negli antichi imperi (egizio, cinese, romano, bizantino) la presenza di una prima “burocrazia imperfetta”.

Con riferimento al nostro ambito nazionale, la burocrazia italiana ha goduto di una buona immagine nel periodo della costruzione dello Stato unitario, ma in seguito ha visto decrescere il proprio status e il proprio potere sociale e attualmente evoca in prevalenza giudizi negativi. Nel corso dell’evoluzione della storia organizzativa, le pubbliche amministrazioni (PA) si sono trasformate in un insieme di strutture che hanno dato vita a comportamenti di conservazione e di mantenimento, rifuggendo costantemente da qualsiasi tentativo di innovazione, diventando quindi un ostacolo al cambiamento. Infatti, così Giuseppe Bonazzi ha descritto il fenomeno burocratico: “in un’organizzazione burocratica, dove tutto è prescritto per regolamento, gli interessi individuali passano attraverso la tutela dei margini di discrezionalità del proprio ruolo. Il ritualismo del burocrate va visto non tanto come un adattamento passivo alle pressioni del sistema, quanto come una strategia che il burocrate mette in atto per difendere la sua libertà d’azione, il suo micropotere di fronte ai superiori e all’utenza. Ma non esiste soltanto il ritualismo come strategia possibile. Esiste anche il distacco, il disinteresse, la rinuncia consapevole a partecipare. La non partecipazione è, anzi, una delle strategie più diffuse nelle organizzazioni burocratiche: i soggetti valutano che farsi coinvolgere non vale la pena, che una strategia di fuga dalle responsabilità è spesso il modo più conveniente per difendere la propria indipendenza”.

Un esempio per tutti può essere la mentalità top-down che ha caratterizzato la tradizionale struttura di comando nelle pubbliche amministrazioni, ancorata ai ruoli chiave dell’organizzazione burocratica. Tuttavia la logica centralistica (del “castello”) è entrata in contrasto con quella della “autonomia” organizzativa (della “rete”) e lo sviluppo della contrapposizione “castello” e “rete” ha determinato che alcuni degli strumenti e delle pratiche che a lungo hanno assicurato (nel bene come nel male) il governo dei processi non solo nelle PA, ma anche in altri organismi istituzionali, sono di oggettivo ostacolo allo sviluppo. Se infatti gli amministratori dicono ai cittadini solo cosa è giusto e buono per loro, ci potrà essere un trasferimento di beni e servizi, ma molto probabilmente non ci sarà sviluppo. Il passaggio dal “castello” alla “rete”, dalla democrazia rappresentativa a quella partecipativa, richiede che la tradizionale gerarchia verticale si trasformi in una orizzontale, che i dirigenti si trasformino in leader, capaci di sostituire all’ “io” il “noi”. Soltanto in questa atmosfera di apprendimento reciproco, dove ognuno è al tempo stesso insegnante e allievo, il consenso potrà emergere, rimpiazzando procedure e atteggiamenti unilaterali e del tipo “top-down”.

Questa tendenza a favore dei diritti e dei doveri dell’uomo, in una parola della dignità umana, continua oggi, nonostante tutte le delusioni e le ingiustizie che tendono a sbarrare la strada verso una esistenza migliore, più dignitosa, più umana. Non solo i cittadini vogliono essere rappresentati da istituzioni democratiche, essi vogliono avere un ruolo nel dare forma al destino della società in cui vivono e operano. Si avverte una diffusa esigenza di democrazia partecipativa. La crescente importanza del volontariato, che ha portato una ventata di “freschezza” nella società civile, costituisce un vivo testimone di questa tendenza. Questi incoraggianti sviluppi non devono, però, indurre a una cieca fede nella inevitabilità del progresso.

Il progresso non è inevitabile: sarebbe bello che fosse così, ma non lo è. Il progresso deve essere perseguito con pazienza, con sollecitudine, con decisione. Il progresso non arriverà come una benedizione globale. Esso deve essere perseguito, percorrendo migliaia di sentieri della vita, da quelle persone impegnate non solo nei grandi ideali, ma anche nei dettagli più modesti, meno pretenziosi della vita quotidiana.

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