Gli intransigenti

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Ferruccio Parri (1890-1981) fu primo presidente del Consiglio dei ministri a capo di un governo di unità nazionale alla fine della seconda guerra mondiale (Fonte: Wikipedia)

Cosa ci viene in mente nell’ascoltare la parola “libertà”? Essa ha molteplici significati: c’è la libertà di parola, la libertà di pensiero, la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura, e molte altre. La libertà è un’esigenza fondamentale degli esseri umani, tanto che ne troviamo menzione nella seconda cantica della “Comedia” di Dante che, nel primo canto del Purgatorio esclama, riferendosi a Virgilio: “Libertà va’ cercando ch’è sì cara”; poi c’è la libertà dal male — della quale in questi giorni tremendi stanno acutamente sentendo la mancanza i cittadini israeliani e palestinesi — e infine, come da un titolo di Maurizio Viroli, c’è La libertà dei servi. In esso l’autore, in premessa, fa una dichiarazione sconcertante: “Ritengo infatti che l’Italia sia un paese libero, nel senso che c’è, sì, la libertà, ma quella dei servi, non quella dei cittadini”. Ad essa fa seguito una precisazione: “L’Italia è un paese libero, se essere liberi vuol dire che né altri individui né lo Stato ci impediscono di agire come meglio crediamo. Tutti possono scegliere, se ne hanno i mezzi e le capacità, l’attività che vogliono esercitare, dove abitare, esprimere le proprie opinioni, associarsi, votare per un candidato o per un altro, criticare i governanti, educare i figli come ritengono giusto, professare questa o quella religione o non professarne alcuna”. Vi è, poi, e qui Viroli prosegue citando Benjamin Constant, “una libertà dei moderni, che consiste nel diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non potere essere arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui … Nel diritto di ciascuno di dire la sua opinione” e, infine: “Nel diritto di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione” [Benjamin Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni]. In questo nostro Paese, infine, cosa incredibile dopo il ventennio, c’è chi si è spinto tanto oltre da fondare un partito che include il termine “libertà” nella sua definizione, e sul quale sono veramente illuminanti le parole di Norberto Bobbio: “anche se si definisce il partito della libertà, anzi il centro di un Polo delle libertà, Forza Italia non si riallaccia affatto alla tradizione liberale italiana. Non ha nulla di simile al liberalismo di Einaudi, per citare il nome più significativo” [Norberto Bobbio, Maurizio Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, p. 83]. C’è qualcuno che, con fondati ragionamenti, potrebbe dissentire dalla molto più appropriata definizione di “partito dei servi”, anziché di partito della libertà, per quella formazione politica? La libertà in effetti c’era, ma era detenuta da un solo individuo, il capo. Tutto il resto era la corte con i suoi cortigiani, la cui essenza si compendiava molto appropriatamente nell’inno, “meno male che Silvio c’è”.

Il problema del nostro Paese, quindi, è che l’Italia è il paese della libertà fragile. Le libere repubbliche del tardo Medio Evo non hanno saputo proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo stato liberale, nato dal Risorgimento del 1861 è stato distrutto cinquant’anni dopo dal Fascismo; la Repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 è degenerata nel sistema berlusconiano. Perché tutto ciò è accaduto e accade? Perché in tutte queste occasioni sono mancati gli oppositori determinati a combattere con tutte le forze contro queste tirannie, qualunque forma abbiano assunto, e perché in troppi sono disposti ad aprire le loro porte e a cedere il passo. La libertà italiana è sempre stata fragile perché troppo pochi sanno essere intransigenti.

Se, adesso, ancora una volta ritorniamo sullo stesso argomento, e cioè quello della responsabilità dei cittadini/elettori nell’aver consentito tutto questo, è per la loro mancanza di intransigenza. Al riguardo sono sempre valide le parole di Luigi Einaudi, secondo il quale: «I cittadini possono facilmente mandare in Parlamento o al governo uomini incapaci o corrotti o l’una e l’altra cosa insieme: “accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno alcuna attitudine a giudicare dei problemi politici, pronti ad usare del potere di coazione dello stato per vivere a spese di coloro i quali lavorano; o gli egoisti individuali, repugnanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire; od i procaccianti, larghi promettitori alle folle di prossimi avventi del paradiso in terra”.» [Luigi Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1987-1954). Laterza 2004, pp. 85-86].

“Come molti altri concetti politici”, scrive Viroli, “anche l’intransigenza è stata ed è considerata da alcuni un vizio, da altri una virtù. Ai nostri giorni prevale la convinzione che in democrazia l’intransigenza sia un vizio … Cercheremo invano l’intransigenza anche nel catalogo delle “virtù deboli”, per usare la bella espressione di Bobbio, quelle proprie non dei politici che hanno l’ufficio di governare, guidare e la responsabilità di fondare e mantenere gli Stati”, ma dei semplici cittadini, “dell’insignificante, dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale sta in basso, non detiene potere su nessuno, talora neppure su se stesso, di colui di cui nessuno si accorge, non lascia alcuna traccia negli archivi in cui debbono essere conservate solo le memorie dei personaggi e dei fatti memorabili”. Fra le “virtù deboli” troviamo l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la pudicizia, la castità, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza, l’innocenza, l’ingenuità, la semplicità, la dolcezza e la mitezza, ma non l’intransigenza” [Norberto Bobbio, Elogio della mitezza]. Possiamo dire, alla luce di quanto visto fino ad ora, che in questo paese l’intransigenza suscita più timori che approvazione. Infatti, arrivato tardi nel linguaggio politico italiano, l’aggettivo ‘intransigente’ non si è più emancipato dalla fama di essere più vizio che virtù, soprattutto per i politici, e di essere pericolosamente vicino al dogmatismo, all’intolleranza e al fanatismo … A guardar bene, però, c’è nel linguaggio politico classico e moderno un concetto molto simile all’intransigenza, che ci aiuta a definirne meglio i caratteri e le sfumature. Si tratta della ‘fermezza’, vale a dire della capacità di stare fermo, immobile, saldo, solido, in grado di resistere a pressioni, spinte, forze, non soggetto a oscillazioni. Con tale termine s’intende anche “virtù, capacità di restare fedele ai propri princìpi, alle proprie convinzioni, alla propria fede; costanza, perseveranza, tenacia (e può anche riferirsi a mente, animo, carattere, contegno, propositi, ecc.) … Diversamente dall’intransigenza, che è trattata quasi sempre come un vizio politico, la fermezza ha un significato prevalentemente positivo. E mentre Bobbio ci ha insegnato che intransigenza e mitezza possono coesistere con reciproco beneficio, secondo Leone Ginzburg, assassinato dai fascisti nel 1934, “la persona intransigente sa comprendere i più deboli, gli incerti, i timorosi, e vuole camminare con loro, non innanzi a loro, per realizzare fini di emancipazione e di giustizia”. Secondo Benedetto Croce, l’impegno politico di Ginzburg aveva un significato religioso, nel senso della religione della libertà dello stesso Croce. “Parlare di autonomia nel puro senso, — scriveva Ginzburg nel 1932 — è affermare il valore morale della politica; intendere che la lotta politica deve essere in Italia lo strumento di rinnovamento di civiltà. La formula, così felice e autorevole di religione della libertà ha appunto questo significato. Per questa religione, senza dogmi, né trascendenza, né culto positivo … la lotta politica assume l’importanza creatrice e rinnovatrice che ebbero le grandi lotte religiose” [Leone Ginzburg, Scritti, Einaudi 1964, p. 4].

“La buona intransigenza”, continua Viroli, “viene dalla determinazione a perseguire il fine che la coscienza addita come giusto, anche quando le speranze di riuscire sono poche, e dalla grandezza dell’animo che dà la forza di essere pronti ad accettare la sconfitta nel presente per creare le condizioni per la vittoria nel futuro … Un’interpretazione molto simile dell’intransigenza come volontà di continuare ad essere se stessi obbedendo soltanto alla propria coscienza e non ai comandi o alle lusinghe degli altri, la ritroviamo anche in Ferruccio Parri, uomo da Croce assai diverso per molti e importanti aspetti, e che in una lettera alla madre dal confino di polizia, scriveva: “Ma voi ed essi dovete intendere che decisioni come queste appaiono di lieve momento solo a chi le consideri con una disinvoltura morale, cui sono per costituzione negato; che decisioni come queste involgono lo stile di un uomo, il suo modo di vivere, la sua ragione anzi di vivere, di fronte alla quale affetti ed amicizie devono per necessità rimanere in secondo piano” [Ferruccio Parri, Scritti 1915-1975], cit., p. 66.

L’amore di Parri per l’Italia, la sua patria, lo portava alla più assoluta, radicale, implacabile avversione al fascismo: “Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale avversione del clima fascista”. Parole pesanti come macigni. Infatti, finché ci fossero stati uomini così, il fascismo era già morto, per la ragione che oppositori di quella tempra non li avrebbe mai potuti piegare, mentre loro avrebbero, prima o poi, piegato il fascismo. Aggiungeva Parri davanti al giudice che lo ascoltava: “Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineludibilmente l’onore dell’esempio”. Per Parri, tirarsi indietro, restare in disparte, confondersi con la “generale flaccidità”, l’ipocrisia e l’accidia che dominavano (e dominano) la vita pubblica italiana voleva dire per lui tradire se stesso e tradire la memoria di uomini che avevano lottato per la libertà della patria e che egli amava sinceramente.

Al termine di questo excursus sul valore e l’importanza dell’intransigenza, rimane solo una domanda che ognuno di noi dovrebbe porsi: E io? Sono intransigente, o transigente ogni qualvolta le circostanze e le convenienze me lo consentono? Parri, Ginzburg, Bobbio, Croce e tanti altri sono fulgidi esempi di uomini fermi e intransigenti che hanno dato lustro al Paese, aiutandolo a liberarsi dal giogo orrendo della dittatura. E oggi, come siamo messi, adesso che l’eco di quell’antico e detestato regime sembra riprendere voce? Siamo intransigenti, innanzitutto con noi stessi, non autoassolvendoci ogni volta che ci sembra opportuno e vantaggioso, o siamo fermi e intransigenti, come dovremmo essere, se quegli esempi significano ancora qualcosa per noi? A noi l’ardua risposta.

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