Diario di chi vorrebbe capire: 7 febbraio 2023

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pagina di diario

Si avvicinano due scadenze politiche di grande rilievo: le elezioni regionali in Lombardia e in Lazio seguite a breve dalle primarie che eleggeranno il nuovo segretario del PD. Sull’esito di entrambi gli eventi non ci sono molti dubbi. Alla destra andranno le presidenze delle due regioni più popolose d’Italia mentre a Bonaccini toccherà guidare il PD. Non ci resta che analizzarne le cause e prefigurarne le conseguenze.

Sulle elezioni lombarde c’è poco da dire: il PD ha perso la ghiotta occasione di dare alla destra una mazzata irripetibile, capace di ridimensionare la spavalderia di Meloni & Co. e di aprire nella Lega una faglia dalle conseguenze imprevedibili. Negare l’appoggio alla Moratti avrebbe forse avuto un senso, se il PD si fosse nel frattempo riappropriato dell’identità perduta, prospettiva che sembra ancora ben lontana. Invece si è ritenuto che la Moratti fosse peggio di Fontana, opinione risibile perché la gestione della pandemia da parte del presidente uscente (ma probabilmente rientrante) e del suo scudiero Gallera è stata di uno squallore che sembra sfuggire ai nostri connazionali padani se è vero che i sondaggi lo dànno vincente: segno evidente che l’elettorato è ormai decotto e non solo in Lombardia. 

La prevista disfatta nel Lazio ha invece l’esclusiva paternità del Movimento 5 Stelle (M5s). Già alleati del PD nella giunta Zingaretti, i grillini se ne sono dissociati per le note divergenze sul famoso inceneritore, una delle loro bandiere identitarie, l’unica sopravvissuta insieme al reddito di cittadinanza. Non hanno voluto rinunciarvi per tentare di recuperare il consenso che vedevano assottigliarsi a causa del sostegno al governo tecnico di Draghi, ma anteponendo in tal modo gli interessi di partito a quello degli italiani. Scelta politica improvvida, perché ha consegnato alla destra il Paese, le istituzioni e i fondi del Pnrr: non solo infatti il progetto dell’inceneritore andrà avanti lo stesso, ma si sono spalancate le porte al peggior governo che ci si potesse augurare. L’irresponsabilità di cui ha dato prova il M5s sfiduciando il governo tecnico ci fa addirittura dubitare dell’abilità politica di Draghi il quale avrebbe dovuto capire che, per evitare la crisi, sarebbe bastato cedere sull’inceneritore. D’altra parte non si può negare a Draghi, che è peraltro un tecnico, il diritto di non sottostare a un ricatto, anche se ci si sarebbe potuto attendere da lui, dallo stesso Mattarella e dal PD di Letta un comportamento più conciliante per amor di patria. La rincorsa dei grillini alla riconquista del consenso ha comportato evidentemente anche una presa di distanze dal PD e quindi il diniego delle proposte di alleanza elettorale, diniego che ha già regalato la Sicilia a Schifani e consegnerà il Lazio al meloniano Rocca.

È facile immaginare quanto saranno strumentalizzate dalla destra la conferma della Lombardia e la conquista del Lazio. La Meloni, che ha aderito ai tradizionali codici di comunicazione di Berlusconi (telefonate in diretta ai conduttori televisivi) e di Salvini (Twitter e social vari) vanterà, senza contraddittorio, il successo della sua compagine governativa, della fermezza esibita nei confronti di tutto ciò che di perverso minaccia l’onore della patria e la serenità dei patrioti. Sarà inasprito ulteriormente il tono sprezzante con cui i suoi fidi cercano di inventarsi ulteriori nemici per coprire l’inadeguatezza dell’intero governo, nessuno escluso. La premier inviterà ovviamente tutti ad abbassare i toni, appello al quale si sottrarrà lei per prima nelle sue esternazioni “sul patrio suol” mentre nelle visite all’estero, che l’attraggono in una maniera degna dei migliori pontefici, continuerà ad elargire sorrisi accattivanti, quasi civettuoli, atteggiamento che probabilmente cambierà una volta ottenuti i finanziamenti comunitari ereditati grazie al governo giallorosso. Nel frattempo continuerà la campagna di occupazione di tutti i posti di potere, un po’ per allargare il consenso in vista delle future elezioni e un altro po’ per saldare i debiti contratti per ottenere la vittoria elettorale dello scorso 25 settembre. E ciò non soltanto nei confronti dei gruppi e delle categorie che l’hanno sostenuta (partite IVA, contribuenti distratti, no-vax, concessionari delle spiagge demaniali, tassisti) ma anche verso quei giornalisti compiacenti o proni agli indirizzi editoriali dei proprietari (come Paolo Berlusconi, Antonio Angelucci) da cui dipendono. Non dovremo dunque sorprenderci se, dopo il veterano Vittorio Feltri candidato in Lombardia per FdI, vedremo collocati in prestigiosi posti di potere o in cariche pubbliche Sallusti, Belpietro, Sinaldi, Borgonovo o Zurlo. In questo percorso ha fatto da apripista Alessandro Giuli, già collaboratore del Tempo, di Libero e del Corriere dell’Umbria poi promosso dal ministro Sangiuliano al ruolo di presidente della Fondazione Maxxi lo scorso 23 novembre e da allora presentato nei talk show, di cui è un habitué, con la nuova veste “neutrale” di direttore del museo Maxxi.

Rattrista dover pensare che nessuno dei possibili alleati del PD alle ultime elezioni politiche si sia preoccupato di tutto quanto stava per accadere. Sono andati tutti avanti, ciascuno per la sua strada, a misurare di quanto consenso godessero nell’elettorato e lasciando il solo Letta a pagare il prezzo della sua lealtà al governo Draghi e la sua misconosciuta assunzione di responsabilità verso il Paese che lo ha visto al governo sempre in compagnia di altri partiti e quindi impossibilitato ad attuare appieno il proprio programma elettorale. Ciò non scagiona naturalmente il PD dal progressivo allontanamento dalla sua platea elettorale di riferimento, né dalle sue omissioni, né tanto meno dalle sue colpe, dovute soprattutto alla sterzata a destra di Renzi. Le correnti che si sono sviluppate al suo interno sono allo stesso tempo causa ed effetto del suo declino, per uscire dal quale sarebbe stato necessario un congresso capace di far emergere una vera e convincente identità, passaggio impedito proprio da quelle correnti interne che ritengono banalmente sufficiente il solo cambio del segretario. Queste correnti sono quelle che sostengono Bonaccini e quindi la sua probabile vittoria alle primarie non cambierà di una virgola l’attuale confusione interna: il PD resterà un partito incolore e quindi incapace di suscitare interesse nell’elettorato di sinistra che preferisce astenersi dal voto. Ci pare di capire che con la Schlein le cose andrebbero diversamente perché il partito assumerebbe una fisionomia politica leggibile anche se a costo di un temporaneo isolamento dai possibili alleati o addirittura di una scissione. Occorrerà scegliere e quindi sarà bene che il popolo di sinistra partecipi alle primarie, munendosi dello Spid e dei 2 euro di contributo, abbandonando l’indifferenza di chi attende, inerte, il ritorno del “Sol dell’avvenir”.

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