Alla conquista del podio

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Pochissime sono le donne che hanno lasciato un segno nella storia della musica. Nella Grecia classica malgrado gli attributi di Euterpe, Musa della musica, e di Erato, Musa del canto corale, fossero l’aulos e la cetra, la storia sembra dirci che la pratica della musica era riservata alle sole etére che la eseguivano per allietare i loro frequentatori. Non parliamo poi della composizione di temi o brani musicali.

Occorrerà attendere l’alto Medio Evo per incontrare la prima “musicista”. La storia ci tramanda la figura della monaca benedettina Hildegard von Bingen (1098–1179). Autrice di musica sacra tuttora eseguita, se pur molto raramente, è passata alla storia come Santa Ildegarda per i suoi innegabili contributi alle scienze naturali ma soprattutto per le visioni mistiche che le valsero poi la santificazione.

Quattro secoli dopo, nel ‘600, troviamo due figure di rilievo: Francesca Caccini (1587–1641), che dette un contributo importante alla nascente musica barocca, e Barbara Strozzi (1619–1677), cantante ed autrice di molte delle sue arie. Passeranno un paio di secoli prima di incontrare, in pieno romanticismo, altre presenze femminili significative. La moglie di Robert Schumann, Clara Wieck (1819–1896) una volta tanto non fu semplicemente la compagna del suo più famoso consorte ma anche la sua collaboratrice ed una eccellente pianista. Riscoperta negli ultimi decenni insieme alla sorella di Felix Mendelssohn, Fanny (1805–1847), vedono oggi eseguite ed incise su disco alcune delle loro opere, per lo più pianistiche. Entrambe condivisero quel clima culturale che ebbe tra le sue protagoniste George Sand (1804-1876) a sua volta determinante nella vita di quell’altro genio della musica che fu Frederic Chopin.

Nei decenni successivi e fino ai giorni nostri poche sono state le autrici di lavori musicali. Spiccano le figure di Lili Boulanger, sorella di Nadia, di cui diremo oltre, e Sofia Gubaidulina mentre è andato sempre crescendo il numero di pianiste e violiniste di grande valore. Alcune di esse hanno conquistato pubblico e critica al pari dei più grandi esecutori dell’altro sesso entrando così nella storia dell’interpretazione musicale (le pianiste Maria Yudina, Clara Haskil, Lili Kraus, Annie Fischer e le violiniste Gioconda De Vito, Ginette Neveau, Ida Haendel). Se si guarda al presente, Martha Argerich e Maria Joao Pires competono ad armi pari con i più grandi pianisti viventi mentre il numero delle violiniste di fama internazionale, a partire da Anne Sofie Mutter, supera forse quello dei violinisti.

Ma suonare, sia pure magnificamente, il pianoforte e il violino così come ogni altro strumento rappresenta comunque un’attività libera da ogni responsabilità sia organizzativa che relazionale. Solo nella musica da camera, in cui più solisti devono condividere la buona riuscita dell’esecuzione, si affaccia il concetto della responsabilità collettiva. L’attività musicale in cui la responsabilità, sia delle scelte interpretative che dei risultati, diventa massima è però la direzione d’orchestra. E da questa delicata attività le donne sono state escluse fino agli inizi del ‘900, anche se ottime musiciste. Lasciamo alla sociologia della musica il compito di analizzare le cause di questo ostracismo, forse anche più spiccato che in altre attività artistiche e professionali, ma non gli è estraneo il fatto che nel sentire comune degli amanti della musica classica è radicata l’immagine del “direttore d’orchestra” come demiurgo, come colui che scova e diffonde la bellezza della musica partendo da un’inerte partitura. Obiettivo, questo, che richiede oltre ad una spiccata sensibilità musicale, rintracciabile ovviamente anche nelle donne, concentrazione, capacità organizzativa e soprattutto l’attitudine al comando, qualità a loro disconosciuta per lungo tempo. E questa divaricazione tra le due diverse predisposizioni è aumentata nel tempo a misura che cresceva l’immagine del direttore d’orchestra dittatoriale ed a quella, non meno suggestiva, del celebrante di un rito iniziatico capace di trasferire gli ascoltatori in una sorta di nirvana musicale. Di queste figure tanto tiranniche quanto sacerdotali il secolo scorso è pieno: basterà citare per l’una il collerico Arturo Toscanini e per l’altra l’edonistico Herbert Von Karajan, entrambi idolatrati insieme a pochi altri; come restare indifferenti all’espressione rapita, quasi una “trance medianica” di Von Karajan? O anche agli attacchi di rabbia che indussero talvolta Toscanini ad abbandonare le prove per lo scarso impegno di qualche orchestrale.

Ed in realtà la direzione d’orchestra è diventata poco per volta metafora del potere assoluto. L’apice di questo fenomeno coincide senza ombra di dubbio con l’ottava sinfonia composta tra il 1906 e il 1907 da Gustav Malher, grandissimo compositore e direttore d’orchestra, che venne denominata “Dei Mille” per le falangi di esecutori impiegati, tra orchestrali, coristi e cantanti solisti. Ma il vezzo, un po’ infantile, di beatificare il direttore d’orchestra si va lentamente esaurendo e nell’era tecnologica i casi di infatuazione sono rari e non durano a lungo. Le donne, che pionieristicamente si sono affacciate alla direzione d’orchestra dagli inizi dello scorso secolo, non potevano certamente mirare al prestigio tributato da tempo a direttori divenuti leggendari. Se lo fecero, affrontando difficoltà e pregiudizi, fu certamente per vero amore della musica o per innescare quel processo di riscatto tuttora in atto. Sono quindi pochi i nomi rimasti nella memoria in questo ristretto panorama femminile.

Tra le prime si ricorda l’olandese Antonia Brico, trapiantata negli Stati Uniti dove inizio la sua carriera direttoriale nel 1930 conseguendo una notevole fama internazionale che la portò a dirigere anche alcune delle più famose orchestre della vecchia Europa. Notorietà soltanto nazionale ebbe invece la sovietica Viktoria Duderova che fu la prima a dirigere, nel 1944, un’orchestra russa di rilievo. Particolare è poi la figura della cecoslovacca Vítězslava Kaprálová, autrice di numerosi lavori e vero talento direttoriale, prematuramente scomparsa nel 1940 a soli 25 anni.

Ma la figura di maggior prestigio fu la parigina Nadia Boulanger che aveva iniziato a dirigere già nei primi anni Venti anche se preferì poi dedicarsi alla didattica, diventando insegnante di composizione presso il Conservatorio di Parigi e riscuotendo in questa veste fama mondiale: tra i frequentatori dei suoi corsi si annoverano personaggi di valore assoluto come Leonard Bernstein, Aaron Copland, Astor Piazzolla, Philip Glass e Quncy Jones.

Oggi la situazione è molto diversa. Le donne hanno infranto definitivamente la cortina che le separava dal podio, con un po’ di ritardo, si direbbe, rispetto allo sdoganamento di cariche istituzionali che richiedono certamente altrettanta capacità e determinazione (si pensi, ahimè, alla Tatcher ma fortunatamente anche ad Angela Merkel, a Ursula von der Leyen, a Christine Lagarde solo per citare quelle che si sono assunte le maggiori responsabilità).

Si contano quindi a decine le donne che dirigono un’orchestra con piena padronanza tecnica e con un’idea interpretativa. Sono presenti ora in tutto il mondo civile compreso l’estremo oriente e con la sola eccezione dei paesi di religione islamica. Godono di fama internazionale le australiane Simone Young, la statunitense Marin Alsop, la finlandese Susanna Malkki, la messicana Alondra de la Parra, la francese Emmanuelle Haim, la cinese Xian Zhang, la lituana Mirga Grazinytè-Tyle e decine di altre. Anche da noi se ne contano molte, alcune delle quali note ed apprezzate anche all’estero come Speranza Scappucci, e Beatrice Venezi. Vedendole in azione non si può non apprezzare che tutte, o quasi, hanno mantenuto orgogliosamente riconoscibile la loro femminilità.

Quest’ultima, recentemente intervistata in tv da Giovanni Floris, ha mostrato anche nella conversazione di possedere sicurezza, determinazione e personalità adeguate alla sua professione. Viene però il sospetto che l’accesso delle donne al podio sia avvenuto solo nel momento in cui sono andate diradandosi le figure dei direttori carismatici che hanno dominato i teatri e le sale da concerto sin dalla metà dell’800 e quindi nella fase calante di un fenomeno che ha già dato il meglio di sé. Peccato, ma è comunque un’altra casella conquistata nella riscossa femminile.

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