Le recenti scoperte archeologiche nel sito di Pompei testimoniano, ancora una volta, la straordinaria importanza culturale, scientifica e storica di questo patrimonio dell’umanità e di quanto sia importante la sua preservazione e valorizzazione. Grazie ai massicci finanziamenti statali al Grande progetto Pompei, varato dal Ministero dei beni culturali nel 2012, non solo il degrado e l’incuria sono state frenate ma si è anche potuto ritornare a fare attività sul campo. Tra le recenti aree interessate dagli scavi archeologici la IX regio è quella più feconda di ritrovamenti. Ultimo in ordine cronologico, quello degli scheletri di due donne e un bambino rifugiatisi negli ambienti di servizio di una domus e finiti tragicamente schiacciati dal crollo delle pareti. Cercheremo di raccontare, a grandi linee, la storia della riscoperta delle città cancellate dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. e la loro influenza sulla cultura e sui costumi all’epoca del ritrovamento.
La prima e più diretta cronaca dei fatti è narrata da Plinio il giovane in una lettera a Tacito. Lo storico, ospite di suo zio in una villa affacciata sul mare a Miseno, assistette alla furia distruttiva del vulcano che cancellò, in poche ore, le città di Pompeii, Herculaneum, Stabiae e Oplontis. Nel I secolo gli abitanti di queste fiorenti città non erano a conoscenza del fatto che il Vesuvio fosse un vulcano (l’ultima eruzione infatti era avvenuta quasi un millennio prima): vedevano in esso un ameno monte ricoperto di vegetazione e terreno ottimo per la piantagione della vite.
I centri abitati prosperavano alle pendici sin dal periodo sannita (VIII secolo a.C.) e nessuno si aspettava la tragedia immane. Ricche, opulente, cancellate dalla furia del Vesuvio in poche ore, congelate nella cenere e nel fango fino alla riscoperta.
Il primo a ricercare le ricche citta distrutte fu l’imperatore Alessandro Severo che, nel 235 d.C., inviò una spedizione sul posto alla ricerca dei tesori sepolti. L’intento predatorio fu disilluso dall’impossibilità d’individuare i siti. Infatti il paesaggio era stato totalmente stravolto dall’eruzione, la stessa linea costiera era stata avanzata di oltre due chilometri dal deposito dei detriti piroclastici. Il tempo passò e nei secoli i luoghi si ripopolarono. Lì dove c’era Pompeii nacque il villaggio di Civita, dove insisteva Herculaneum sorse Resina (nome mantenuto dal paese fino al 1969), a valle della vecchia Oplontis fu fondata, nel XIII secolo, Torre Annunziata.
Nel XVI secolo il conte di Sarno, avendo acquistato il feudo di Torre Annunziata, decise di far costruire dei mulini proponendosi di alimentarli con le acque del fiume Sarno. Nell’operare lo scavo dei canali per la deviazione del fiume furono ritrovati molti ruderi e monili. L’architetto Domenico Fontana, incaricato di seguire i lavori, riconobbe il valore dei reperti e si ripropose di proseguire la ricerca. Il progetto andò in fumo a causa dei frequenti sismi che interessarono la zona. Il più devastante di tutti fu il terremoto del 1592 che rase al suolo l’intero entroterra vesuviano, tra cui l’abitato della Torre.
Solo nel XVIII secolo, grazie a una serie di fortunati eventi, le città sepolte iniziarono a tornare alla luce. Il merito principale della favolosa riscoperta si deve ad un generale di cavalleria austriaco, Emanuele Maurizio di Lorena duca d’Elboeuf, di stanza a Napoli dal 1706. Il nobile era innamorato di Partenope al punto di disertare dall’esercito e costruirsi un magnifico palazzo a Portici sulla spiaggia del Granatello, primo in ordine cronologico di quelle 122 casine di delizia chiamate Ville Vesuviane del Miglio d’oro. Il primo ritrovamento documentato e più rilevante lo fece un contadino del posto, tale Ambrogio Nocerino detto ‘nzecchetta che, volendo ampliare un pozzo d’irrigazione, scavando s’imbatte in pezzi di marmo di pregevole fattura. Un servo del duca li acquistò per farne dono al d’Elboeuf conoscendo la sua passione per le antichità. Immaginate quale fu la sorpresa del nobile quando si accorse che tra le mani aveva i resti di un edificio romano, l’Odeon della città dedicata ad Ercole. Iniziarono così i primi scavi che riportarono alla luce statue ed oggetti preziosi. I tesori riemersi andarono ad adornare l’erigendo palazzo del Granatello, che si andò via via arricchendo di una prestigiosa collezione.
Altro caso fortuito fece conoscere il neoeletto re Carlo di Borbone (1734) con il duca amante delle antichità. Raccontano le cronache che il vascello reale con a bordo il re e la regina di Napoli fu costretto ad attraccare al porticciolo del Granatello a causa di un improvviso fortunale. Re Carlo e la regina Amalia di Sassonia furono ospitati dal duca nell’ormai completato e fastosamente decorato palazzo sul mare disegnato dal grande architetto Ferdinando Sanfelice. Carlo di Borbone, entusiasta della bellezza della collezione di antichità ed affascinato dal posto, decise di costruirvi una residenza reale e di dare inizio ad una massiva campagna di scavi nell’intero circondario, alla ricerca delle città perdute di Pompei, Stabia ed Oplonti.
A Roque Joaquin de Alcubierre, archeologo e ingegnere, il re affidò la direzione degli scavi nel 1738, dando origine alla grande stagione dell’archeologia napoletana. Benché allora lo scopo principale degli scavi fosse mirato al solo recupero delle statue e dei manufatti per arricchire le residenze ed il patrimonio della corona e dare prestigio al casato, l’impatto mediatico delle nuove scoperte sulla cultura occidentale fu molto grande. Non solo per i reperti in sé, ma per la scoperta dei valori che contrapponevano quella civiltà pagana a quella imperante cristiana. Nell’immaginario collettivo del tempo prese piede l’idea che Pompei, novella Sodoma, fosse una città profondamente immorale, pertanto la sua distruzione fosse avvenuta per una giusta punizione divina. La massiccia presenza di raffigurazioni erotiche, l’abbondanza di suppellettili con attributi sessuali esposti facevano intendere che ogni casa fosse un lupanare. In realtà, come ben sappiamo, i culti della fertilità, sincretizzati attraverso l’esposizione di grossi falli dal valore apotropaico, erano pratiche comuni ed accettate nelle società greche e romane.
I luoghi dei ritrovamenti divennero comunque fenomeno d’attrazione e tappa obbligata del Grand Tour. Come detto, grande fu in quel periodo l’influenza esercitata dalle scoperte di Ercolano e Pompei sull’arte e sull’architettura, sulla musica, con l’affermarsi dello stile neoclassico, ma anche sulla moda e sul costume. In quegli anni nacque lo stile Impero che, ispirandosi allo studio dei modelli latini copiati a Pompei, coinvolse tutto il campo delle arti minori, dall’arredamento all’ebanisteria, dalla coroplastica alla sartoria. Una vera e propria pompeimania dilagò in Europa agli inizi del XIX secolo. La stessa costruzione della prima ferrovia d’Italia, la Napoli–Portici nel 1839, non fu un caso né un semplice capriccio del sovrano Ferdinando II, ma fu costruita per facilitare l’accesso dei visitatori che si recavano a Napoli per vedere il Museo Ercolanense, conducendoli alla Reggia nel modo più “moderno” e confortevole.
Con l’unità d’Italia ci fu un repentino cambiamento nelle opere di scavo: la direzione fu affidata a Giuseppe Fiorelli che, potendo disporre anche di un maggior supporto economico, iniziò lo scavo integrale di diverse insulae e concluse quello di alcune già parzialmente esplorate. Proprio a Fiorelli si deve la prima ordinata opera di scavo, con la divisione della città in insulae e regiones. Nel 1863 fu introdotta la tecnica dei calchi, ossia si intuì che, riempiendo con gesso le tracce lasciate dalla decomposizione dei materiali organici, si poteva risalire a persone, piante e oggetti della vita romana.
Nel 1924 divenne direttore Amedeo Maiuri, incarico che mantenne per ben 37 anni: questo lungo arco di tempo fu uno dei più vivaci per la storia delle rovine. Venne completato lo scavo dell’anfiteatro e della palestra grande, si proseguì lo scavo lungo Via dell’Abbondanza, tra il 1929 ed il 1930 fu completato lo scavo di Villa dei Misteri, già iniziato nel 1909, furono completamente ripristinate le antiche mura e si iniziarono indagini alla necropoli di Porta Nocera ed alle ville urbane sul lato meridionale della città; inoltre proprio il Maiuri condusse studi stratigrafici utili per la ricostruzione cronologica di Pompei.
Mark Twain ammirato dalle rovine scriveva: “Dovunque, un po’ dappertutto ci sono cose che vi rivelano costumi e la storia di questo popolo dimenticato. Ma cosa lascerebbe sopravvivere di una città americana l’eruzione di un vulcano che la ricoprisse con le sue ceneri? Ben difficilmente resterebbe un segno o un simbolo a narrarci la nostra storia.”