Dio esiste?

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Mi sono posto più volte una domanda: se il Papa non si affacciasse più ogni domenica sul loggione di San Pietro a impetrare l’aiuto di Dio per far cessare le guerre, le carestie, per aiutare i poveri e i diseredati, cosa cambierebbe? Lo stesso vale per i Muezzin, che dall’altro dei minareti pregano il loro Dio e invitano i fedeli a fare lo stesso.

In sostanza, il punto in questione è: quando qualcuno lo prega, lo invoca, sia esso un illustre personaggio come il Papa o un semplice e anonimo fedele, c’è qualcuno che ascolta e che potrebbe, se volesse, esaudire la sua richiesta? La faccenda non è di poco conto se non si trascura il fatto che la religione ha avuto – e continua ad avere – un ruolo determinante nella storia umana e che, attualmente, la stragrande maggioranza degli abitanti di questo pianeta aderisce ad una delle migliaia di confessioni religiose esistenti.

Per molti degli appartenenti a uno di questi numerosi culti, la pratica religiosa è diventata una semplice etichetta, sancita, per esempio, dal certificato di battesimo. È un dato di fatto che, per lo meno nel mondo occidentale, la partecipazione alle funzioni religiose è in caduta verticale. Non accade lo stesso nel mondo islamico, dove è ancora molto forte il senso di appartenenza alla comunità di fede.

Detto questo, ritorniamo alla domanda iniziale. Quando miliardi di persone innalzano preghiere a Dio, contenenti spesso disperate richieste di aiuto, è mai accaduto, nell’intera storia umana documentata, che qualcuno dall’alto abbia risposto in modo chiaro e inequivocabile? I fatti a nostra disposizione rispondono con un enfatico: No! Nel corso dei secoli si sono levate richieste accorate perché Dio intervenisse per fare cessare le guerre, per fermare le epidemie, per i più svariati motivi, ma a tutte queste suppliche la risposta è stata sempre quella di un assordante silenzio. E ci risparmiamo la domanda retorica, ripetuta migliaia di volte, e risuonata nel recente “giorno della memoria”, del “dov’era Dio ad Auschwitz?”

La realtà è che credere nell’esistenza di Dio non è altro che un atto di fede, e la fede non ha bisogno di essere sostenuta da prove. Lo spiegò chiaramente l’autore della lettera agli Ebrei (11:1), quando scrisse: “La fede è garanzia delle cose sperate, prova per le realtà che non si vedono”. “Cose sperate” e “realtà che non si vedono”, vuol dire credere perché lo si vuole e non perché vi siano elementi a sostegno. Che anche uomini preminenti del primitivo cristianesimo fossero costretti a riconoscerlo, lo riscontriamo in due passi del Nuovo Testamento attribuiti all’apostolo Giovanni, nei quali egli scrisse: “Dio nessuno l’ha visto mai” (Gv. 1:18) e “Nessuno ha mai visto Dio” (I Gv. 4:12). È evidente che, per credere in qualcuno o in qualcosa che nessuno ha mai visto, è necessario che l’esigenza di credere sia così forte da porre in secondo piano la domanda se ciò in cui crediamo esista veramente, sia reale. Questa esigenza è ben riassunta in un saggio recente di Giovanni Filoramo dal titolo Ipotesi Dio. Il divino come idea necessaria. Dio, quindi, è un’ipotesi necessaria. Perché? Innanzitutto perché l’uomo è diverso da tutte le altre creature; esse, infatti, accettano l’ambiente che le circonda semplicemente come un dato di fatto, mentre l’uomo esiste come tale soltanto se percepisce sia la sua solidarietà con l’universo, sia la sua distinzione da esso. E in questo suo percorso verso l’identità l’uomo incontra così la divinità. Essa rappresenta la trascendenza di tutti i limiti della coscienza umana e il movimento dello spirito umano rivolto verso la propria identità attraverso l’incontro con la realtà ultima. Per dirla con R. Panikkar: “La divinità è la consapevolezza dell’uomo della propria identità, eppure resta sempre inafferrabile, nascosta e, per qualcuno, apparentemente inesistente”.

Tutto ciò ci riconduce al nocciolo essenziale dell’argomento, ovvero alla domanda se Dio esiste, alla quale la risposta è: Sì, ma nella mente dell’uomo, e, come dice Roger Paden, “La divinità, qualunque cosa sia, è per noi raggiungibile come atto di coscienza”. In questo egli è in sintonia con molti pensatori, sia in Oriente che in Occidente, che hanno identificato la divinità con la coscienza, nella sua forma più elevata. Una coscienza tesa a darsi una risposta al mistero della vita e al senso del mondo. In una brillante sintesi di tutto questo, Wittgenstein, nei suoi Quaderni, scrive: “Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio … credere in Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire che la vita ha un senso”. – Wittgenstein, Quaderni 1914-1916.

Va da sé che continuare a credere in Dio, nel Dio del Cristianesimo in particolare, con tutti i suoi attributi di misericordia, bontà, amore infinito, onnipotenza, va facendosi sempre più difficile, quando si è costretti a prendere atto che la stragrande massa dell’umanità è da questo Dio spietatamente abbandonata a sé stessa nel dolore, nell’indigenza, priva di ogni prospettiva di riscatto, e quando Egli sembra assistere, indifferente, allo scempio di un pianeta che, secondo la narrazione biblica, Egli aveva creato perché fosse un paradiso. Le religioni, si deve riconoscerlo, hanno fallito nel dare risposte a queste domande, a spiegare come ciò sia possibile e, al riguardo, mi sembra pertinente la riflessione che ne fa Richard Dawkins nel suo celebre Il gene egoista, quando scrive che non soltanto la chiesa cristiana, ma la religione tout court dev’essere considerata come un virus mentale, “un asse portante del male del mondo; e non solo quella degli estremisti fondamentalisti e fanatici, ma ancor prima quella moderata, che ne svela l’impostura”. E la sua conclusione pedagogico-moralistica è che educare un bambino in una tradizione religiosa è colpa peggiore della pedofilia.

Le risposte, innumerevoli, volte a spiegare il “silenzio di Dio”, il suo non interventismo nelle vicende umane, alla fin fine non sono altro che il tentativo – a volte estremamente ben confezionato – di uomini che cercano di risolvere il problema creato da altri uomini che, in tempi remoti, hanno “inventato” Dio. Nell’usare il termine “invenzione” non intendiamo affatto parlare di mistificazione, bensì del lodevole tentativo di rispondere a un’esigenza profonda della natura umana, in quanto la fede o credenza religiosa non è soltanto, o tanto, un processo trasparente di assenso intellettuale, ma anche, e soprattutto, una dimensione più profonda, che tocca le dimensioni più intime dell’essere umano, su quelle che Pascal definì “le ragioni del cuore”.

E questo perché, piaccia o non piaccia, la religione è una componente ineliminabile della nostra vita, un universale umano che può essere spiegato in modi diversi, ma non eliminato, pena l’eliminazione di una parte essenziale della nostra natura; ecco perché, come afferma Filoramo, “l’ipotesi Dio occupa in tutto ciò un ruolo centrale, comunque questo Dio – o, meglio, questo divino – venga di volta in volta configurato”. Secondo il filosofo Eugenio Lecaldano, una concezione del mondo che cerca di spiegare sistematicamente tutte le varie parti della cultura umana sulla base di dati ricavati soltanto dall’esperienza sensibile e, dunque, senza alcun riferimento al soprannaturale o al trascendente, potrebbe dar luogo a una sorta di naturalismo metafisico che rischia di venire assimilato a una fede religiosa. – Lecaldano, Senza Dio.

Ritornando all’“invenzione” di Dio, assodato che credere in qualcuno o qualcosa di infinitamente più potente di noi serve a rassicurare, a tale invenzione bisognò associare norme e leggi che – attribuite direttamente alla divinità di turno – in quanto di origine ultraterrena era fatto obbligo osservare, come – per esempio – nella religione islamica nella quale il delitto di apostasia, ossia l’abbandono della fede, è punibile con pene molto severe e in alcuni casi persino con la morte. Che le leggi “sacre” siano di natura squisitamente umana ne abbiamo prova nei Dieci Comandamenti che, lungi dal riguardare solo il rapporto con il divino, elencavano minuziosamente regolamenti quotidiani della vita della comunità, esattamente come molto tempo prima era avvenuto con il Codice di Hammurabi che, pur non conoscendo il Dio di Mosè, era giunto pressoché alla stessa formulazione legislativa.

La nascita del Cristianesimo mutò profondamente il quadro religioso. L’arrivo del Cristo rese obsolete le miriadi di norme e regole che avevano caratterizzato la vita del popolo fino a quel tempo, in quanto introdusse l’attesa messianica, essendo le prime comunità cristiane comunità escatologiche che vivevano in attesa del ritorno imminente del Cristo risorto – la parusìa – che avrebbe inaugurato la fine del mondo. Per inciso, dopo duemila anni di attese irrealizzate, sono ancora vivi e vegeti alcuni gruppi (Avventisti, Testimoni di Geova) che continuano a proclamare l’ormai prossimo evento apocalittico, nonostante l’evidente e inoppugnabile fallimento di tutte le loro “profezie”, a conferma – se fosse ancora necessario – della irrazionalità di molte aspettative di fede.

È tempo di riannodare il filo e ritornare all’inizio, senza tener conto dell’immensa quantità di parole che secoli di riflessioni ci hanno consegnato. E cioè, quando folle radunate ascoltano il loro pastore (qualunque sia la sua appartenenza religiosa) pregare Dio affinché elargisca le sue benedizioni, protegga il popolo dalle calamità e dal male, o quando un singolo fedele in un reparto di rianimazione di un ospedale chiede al suo Dio di salvare la vita del suo caro, queste folle o questa persona sanno perfettamente che non accadrà nulla, perché nulla è mai accaduto, a prescindere dall’intensità con la quale la richiesta viene elevata. E allora perché si continua a farlo? Un tentativo di risposta si può trovarlo in un interessante lavoro di Anthony Kenny, What I believe, la cui istanza che emerge dal libro è quella che il filosofo inglese definisce “agnosticismo devoto”, in cui egli si riconosce: “Pregare, comunque, un Dio della cui esistenza si dubita e per la quale non si possono portare prove. Una preghiera, evidentemente, con nessuna possibilità di risposta”.

Ci piace concludere un discorso che lascia aperti tutti gli interrogativi ai quali mai potrà essere data una risposta certa, con la lettura di poche righe tratte da uno dei capolavori di Hans Küng, Dio esiste?, che citando Pascal, al quale abbiamo già fatto riferimento, dice: “Ormai, quindi, è chiaro per Pascal che l’uomo conosce Dio soltanto con il cuore: Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione”.

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