Fare arte e comunicare, intervista a Jago

tempo di lettura: 6 minuti
Jago, Habemus Hominem (Foto Archivio Neiviller)

Facendo un parallelismo tra oggi e il passato, notiamo delle enormi differenze nei metodi di comunicazione e commercio nell’arte.

In passato l’artista era colui che per puro diletto e bisogno di espressione produceva opere ben studiate secondo la propria esigenza o secondo commissione. C’erano correnti di pensiero, che portavano a mode e stili differenti nei quali gli artisti spaziavano di fantasia e maestria. Fino all’Ottocento il sistema di produzione e commercio di opere d’arte erano affidati sia alle botteghe, nelle quali i giovani artisti venivano istruiti e messi in contatto con i committenti, sia all’influenza delle Accademie di Belle Arti. Essere accettato nelle Accademie significava raggiungere un notevole prestigio quasi immediato e vedere le proprie opere già potenzialmente acquistate dalle famiglie nobiliari o persino dalle casate reali e dai ricchi borghesi.

Per promuovere i propri artisti le Accademie organizzavano esposizioni ufficiali (in Francia chiamate Salon), nelle quali venivano assegnati dei premi in denaro agli artisti migliori e in più le opere potevano essere acquistate dallo Stato. Quindi botteghe, accademie ed esposizioni erano gli unici metodi che nel passato gli artisti avevano per farsi conoscere e raggiungere una certa fama, ed erano metodi destinati a pochi, ai migliori ma che di certo portavano a percorsi di rilevante importanza.

Oggi i sistemi di comunicazione e commercio sono totalmente cambiati. Per accedere alle accademie non c’è più una rigida selezione, chiunque vi può accedere e non si ha più la certezza che, una volta entrati, si avrà di sicuro un lavoro. Oggi chiunque si può definire artista, chiunque attraverso i social può pubblicizzare se stesso e divenire parte di un sistema di commercio di enormi dimensioni. Questo può far spavento, può demoralizzare chiunque, ci si chiede come sia possibile oggi farsi notare in questo enorme oceano pieno di pesci?

Ho intervistato Jacopo Cardillo, in arte Jago, artista contemporaneo, scultore ed anche grande affabulatore, che è riuscito ad emergere in questo caos, per conoscere e comprendere il suo percorso in questo spaventoso oceano.

Jago ha dichiarato l’importanza della simbiosi tra le sue sculture e la comunicazione tramite social network. Nato a Frosinone, da poco trasferitosi a Napoli per un progetto è padre di molte opere tra cui “il figlio velato“; è oggi impegnato nella realizzazione di una nuova opera “la pietà”. Il suo laboratorio d’eccezione è la chiesa di Sant’Aspreno alla Sanità, antico e popoloso quartiere nel cuore di Napoli dove sembrano concentrarsi tutte le contraddizioni della grande metropoli contemporanea. La facciata della Chiesa porta ben visibili i segni del tempo che le sue mura hanno attraversato e camuffa la maestosità che racchiude. Una volta varcata l’entrata della chiesa uno spettacolo mozzafiato lascia impietriti e il silenzio ispira ad una contemplazione senza tempo. All’interno tra polvere di marmo e sculture espositive c’è Jago, intento nella lavorazione della sua ultima opera.

Jago, Muscolo minerale (Foto Archivio Neiviller)

Domanda: Come mai hai scelto Napoli e la Sanità come sede per i tuoi progetti?

Risposta: Sono arrivato per caso alla Sanità, non era previsto. Come per gli innamoramenti, succede sempre così: capiti in un luogo e scopri che è quello giusto e questo si innesta in un percorso che è quello di buttarsi sempre in cose nuove. Ho sempre viaggiato e mi sono innamorato di tanti luoghi e sono quelli che poi ho frequentato. Sono arrivato qua perché dal 2017 era nato il progetto del “figlio velato”. Avevo cominciato a frequentare Napoli per vari motivi, fra cui un documentario. Una volta realizzata l’opera “il figlio velato” a New York, sono tornato qui a Napoli per cercare il luogo dove collocare l’opera. Andrea Viviani, l’ex direttore del museo MADRE, aveva individuato una serie di luoghi tra cui l’ultimo, che era la Sanità. Quando sono arrivato alla Sanità ho vissuto un’esperienza mistica, come in un cinema: accadono delle cose che nemmeno il più creativo dei registi avrebbe messo su carta. Un teatro che si svolge così davanti ai tuoi occhi e poi scoprii che all’interno di questa chiesa, che dovevo andare a visitare come possibile luogo definitivo per il mio laboratorio, c’era il silenzio. Chiaramente mi sono innamorato di questa condizione e ho capito che qui ciò a cui partecipavo in strada era una piccola parte di quello che veniva nascosto, che era bellezza infinita. Ne sono stato quindi profondamente attratto. Dopo aver visto questo luogo, c’è stata l’idea, l’intuizione. Avevo bisogno di un laboratorio all’altezza della mia ambizione, e dico umilmente spropositata. C’era questo ambiente abbandonato, deturpato e allora ho capito che la mia presenza poteva farlo rinascere, non soltanto avendo fatto un gesto, ma insistendo in una serie di gesti, dando senso ad un percorso.

Jago, Container (Foto Archivio Neiviller)

D.: Che relazione c’è tra il “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino, e il suo “figlio velato”?

R.: In comune con l’opera del “Cristo velato”, il “figlio velato” ha solo la parola “velato” e che è fatto di marmo. Il concetto è chiaramente diverso ma ricalca l’immaginario. Non è un’immagine sacra, ma racconta una storia riconducibile a qualcosa che già conosciamo. È un bambino coperto da un velo e non ho necessità di raccontare o aggiungere qualcosa a quello che ho già detto con l’opera, quello è il mio linguaggio, altrimenti ne avrei parlato, non avrei fatto una scultura. Penso che aggiungere parole tolga all’osservatore la libertà di vedere quello che vuole perché il bello di quell’opera è che è tante cose, è tutte le cose che ognuno è libero di vedere, quindi è meglio che rimanga simbolica.

D.: Ha un significato particolare la mano scoperta del “figlio velato”?

R.: La mano scoperta del “figlio velato” sicuramente ha un senso e anche una motivazione, potrebbe anche essere chiaro a qualcuno capire perché ho lasciato la mano scoperta. L’unica cosa che posso dire è che quell’opera è in relazione a quella che sto facendo adesso, dice qualcosa, inizia un discorso che viene continuato con “la pietà” e anche con l’opera che verrà dopo.

D.: Secondo te è indispensabile la comunicazione attraverso i social?

R.: Credo che oggi l’artista debba essere in grado di occuparsi della propria opera e della propria comunicazione. Debba essere in grado di tornare ad essere un imprenditore, perché lo è stato per un periodo molto lungo nella storia dell’arte. Oggi non si sa più cosa è l’artista, credo che la comunicazione debba essere alla base di un buon lavoro d’artista. Credo che più del 90% delle persone che conosce il mio lavoro non l’ha visto dal vivo ma solo in foto. Ho capito che quel tipo di lavoro, cioè la comunicazione, fa parte dell’opera, cioè è opera stessa comunicare, saper scegliere le proprie parole, capire quale è la forma del materiale di cui è composto il tuo interlocutore quando parli. Non è sempre scultura questa? Ci sono persone malleabili come l’argilla, persone come il marmo che con una pressione le distruggi in un attimo. Il social fa parte delle mie opere, è la stessa identica cosa. Attraverso i video che realizzo riesco a capire meglio quello che faccio, mi condiziona. Ad esempio in una diretta sapere che ti stanno guardando delle persone ti condiziona nel lavoro, se quella cosa non fosse avvenuta io avrei fatto altre cose e il lavoro sarebbe cambiato.

Jago, Ego (Foto Archivio Neiviller)

D.: Credi ci siano grandi differenze nel mercato dell’arte tra quello italiano e quello estero?

R.: A me non piace per niente abbinare il termine “mercato” all’arte. Viviamo in un mondo di consumi e l’arte ha fatto quella fine, la ritrovi nelle fiere come soprammobili e questo ha condizionato la libertà dell’artista. C’è zero libertà perché deve fare delle cose trasportabili, vendibili e quindi l’artista è diventato un piccolo produttore seriale di cose, deve fare il brand, deve inventarsi l’idea furba. Alla fine, ovunque vai, trovi possibilità. Andare all’estero non è detto che sia la scelta giusta. Andare a New York poteva essere la scelta giusta magari ai tempi di Andy Warhol, quando era più simile a Napoli, quando era il regno della malavita, della droga. Oggi New York è satura, è fatta di gallerie dove l’affitto costa tantissimo e quindi devono vendere e vendere, inventarsi artisti ogni giorno, che poi non sono artisti sono persone che commissionano opere d’arte e se le fanno fare. Io voglio fare delle cose che magari verranno apprezzate in un altro momento, magari quando non ci sarò più.

D.: Che consiglio daresti ai giovani che tentano di farsi spazio in questo mondo dell’arte?

R.: Esistono due categorie: quelli che fanno e quelli che si lamentano. La parola magica è fare. Di solito quando dici a un ragazzo fai, lui ti chiede: cosa? non so cosa fare, non so come fare. Il fatto è che non è importante cosa fare, è importante fare, fare un gesto, sbagliare per imparare. Invece viviamo in un mondo in cui non si può sbagliare, devi studiare e devi essere il migliore perché devi andare a lavorare e far arricchire qualcun altro. Invece no, la regola è sbagliare e quindi fare, cercando di capire soprattutto il tuo valore, cerchi di capire perché gli altri dovrebbero volere le tue cose, renderti conto che lo stai facendo per gli altri, allora ti avvicini sicuramente a una risposta e sarà la tua perché non c’è una ricetta. Io non ho una ricetta, posso raccontare cosa ho fatto io, ma poi se sostituisci il mio metodo e i contenuti di qualcun altro non è detto che otterrai lo stesso risultato. C’è l’esperienza personale in mezzo. Il mio percorso può essere uno stimolo per gli altri nel dire “se ce l’ha fatta lui, posso farcela anche io”; ed io dico: “certo che puoi, devi farlo anche meglio”. Quando qualcuno mi dice: “io voglio diventare come te”, per me è un bel complimento, ma tu devi diventare meglio, io ho dei grandi limiti che ho imparato a vedere. La legge dell’offerta chiede cos’hai da offrire e, se tu offri e investi in te stesso in formazione, in produzione e cerchi di capire, avrai qualcosa di valore da offrire. Fare e offrire, capire cosa hai da offrire, io non ho le risposte ma so per certo che ciò che conta sono le domande giuste. È più facile che raggiunga obiettivi una persona senza talento, ma con l’abnegazione, che una persona con talento ma che non ha voglia di fare nulla. Se riconosci di avere un talento e ti impegni in quello, ogni giorno puoi fare grandissime cose.

2 commenti su “Fare arte e comunicare, intervista a Jago”

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto