L’altra faccia della guerra

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“Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Questo augurio, vecchio ormai di duemila anni ed estesamente conosciuto anche da chi solo di tanto in tanto dà una veloce lettura agli scritti neotestamentari, non può che condurci a una sconfortante conclusione, e cioè che sulla terra non esistono, né sono mai esistiti “uomini di buona volontà”, o che il loro numero è sempre stato così insignificante da non fare la differenza. Che cos’è la “buona volontà”? Etimologicamente dovrebbe voler dire l’intento di adoperarsi con tutti i mezzi a disposizione per conseguire un obiettivo che consenta, a chi vi è coinvolto, di eliminare ogni motivo di contrasto con la controparte, avendo il fine desiderabile di porre termine a conflitti, controversie, divisioni. E il risultato di tutto questo, come auspicato dall’augurio, è proprio la pace.

Applichiamo questa premessa, come abbiamo già fatto in passato, a uno dei due conflitti che stanno insanguinando il mondo, e in particolare quello del medio oriente, che costituisce un elemento di forte destabilizzazione degli equilibri politici mondiali, ovvero il conflitto israelo-palestinese. Suggerisco, a chi volesse dare uno sguardo più attento a ciò che sta accadendo in quel territorio, di leggere i due imperdibili interventi di Bernard-Henri Lévy e di Antonio Scurati su la Repubblica del 22 maggio scorso. Essi gettano una nuova luce e forniscono un valido spunto di riflessione sull’immane tragedia che i due popoli stanno vivendo.

A questa premessa vogliamo aggiungerne un’altra, anch’essa indispensabile, e cioè che va ribadita una convinzione che in nessun modo può essere ignorata o sminuita, e che deve costituire un solido punto di partenza per tutto ciò che ne è derivato, ovvero il sanguinario, orrendo, spietato, disumano e ingiustificabile attacco del 7 ottobre 2023 da parte dei macellai di Hamas nei confronti di centinaia di giovani (alcuni dei quali ancora loro ostaggi) che spensieratamente stavano godendo un giorno di festa. Ciò che hanno compiuto quelle belve disumane non potrà mai essere dimenticato dalla memoria collettiva; esso rappresenta un crimine contro l’umanità, così come lo rappresentò, anche se in dimensioni molto maggiori, la Shoah. Come scrive Scurati: “La sadica, deliberata, programmatica ferocia con cui la strage, gli stupri, i rapimenti furono compiuti da Hamas segna, a mio avviso, una data nera e memorabile nel pur fitto calendario degli orrori contemporanei”.

Se, però, vogliamo capire cos’è che ha portato a questo scenario tragico, dobbiamo per un momento metterlo da parte e, facendo un salto indietro nel tempo, ritornare al 29 novembre 1947, quando fu approvata la risoluzione n.181 dell’ONU che sanciva la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico, comprendente il 56% del territorio, l’altro arabo, sulla parte restante. In poche parole ai palestinesi fu assegnato il territorio conosciuto come “striscia di Gaza” a sud e quello della Cisgiordania, a nord, e parte della città di Gerusalemme. Questa spartizione non fu mai riconosciuta dagli arabi e mal digerita dagli israeliani, e quindi, a partire da allora, le relazioni fra i due popoli divennero ogni giorno sempre più tese e più difficili. Fino a quando non si verificò l’evento dirompente, la cosiddetta “guerra dei sei giorni” del 1967, in seguito alla quale Israele, vittorioso contro diverse nazioni arabe che lo avevano attaccato, occupò le porzioni di territorio palestinese, cioè la striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, che da allora sono stati definiti “territori occupati”.

Questa situazione, a causa della quale i palestinesi sono stati espropriati delle terre loro assegnate e nelle quali già vivevano da sempre, è l’origine di tutto ciò che è accaduto nella tormentata storia dei rapporti fra i due popoli. Ma, prima di proseguire, cercando di fare chiarezza da un punto di vista imparziale e storicamente corretto, è necessario sottolineare che all’interno della nazione d’Israele vi sono molte “anime”, e tutte con differenti opinioni in merito a come affrontare la situazione dei territori occupati e dei rapporti con i palestinesi. Uno dei gruppi, che rappresenta una percentuale del 13% sull’intera popolazione dello Stato, è quello degli ultraortodossi, in ebraico gli Haredim, ossia, letteralmente i “timorati” (di Dio). Sono un gruppo che è in grado di esercitare notevoli pressioni sui governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, ma in particolare sul governo Netanyahu che è, per così dire, costretto, se non vuole perdere il suo incarico, a schierarsi dalla loro parte e aderire alle loro richieste.

Cosa caratterizza questo gruppo religioso rispetto alle credenze dell’ebraismo non ultraortodosso? Innanzitutto la loro interpretazione letterale delle Scritture Ebraiche, in particolare le due Torah che furono consegnate a Mosè sul Sinai da Dio in persona. Una delle due è in forma scritta e la troviamo nei libri dell’Esodo e del Deuteronomio, che fanno parte del Pentateuco, i primi cinque libri delle Scritture, l’altra è quella orale, chiamata anche Mishnah. Dalla loro lettura integralista del testo sacro emerge con chiarezza che secondo loro i confini inviolabili d’Israele sono quelli fissati migliaia di anni fa, il cosiddetto “Grande Israele”, che va dal Mediterraneo al Giordano, e quindi insediarsi in quelle terre, che ritengono occupate abusivamente dai palestinesi, è ciò che fanno ormai da decenni, e non hanno alcuna intenzione di smettere, nonostante la riprovazione internazionale. Questi gruppi religiosi, anche in questi giorni di guerra, continuano le loro incursioni in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, compiendo quotidianamente irruzioni, scorrerie contro i palestinesi. Il governo Netanyahu non fa nulla per bloccare queste scorribande e, giustamente, il presidente Biden ha detto chiaramente che “la violenza dei coloni israeliani è una minaccia alla pace”. Ma da quest’orecchio, l’attuale governo di estrema destra sembra non sentirci. E le azioni violente contro i palestinesi proseguono a ritmo serrato, non solo da parte dei coloni, ma anche dell’esercito. È di questi giorni la notizia che soldati israeliani avrebbero distrutto dei terreni agricoli e sradicato oltre quattrocento piantine di olivo nel villaggio di Wadi Fukin, a ovest di Betlemme. Gli attacchi israeliani nel territorio della Cisgiordania si sono intensificati dopo il 7 ottobre, con coloni e soldati che hanno compiuto atti di vandalismo, demolizioni e sradicamento di numerose piante con mezzi pesanti. Poche settimane fa i coloni hanno creato un nuovo avamposto nell’area di al-Ma’rajat, a nord-ovest di Gerico.

In questo clima di tensione e di guerra, l’esecutivo di estrema destra, guidato da Netanyahu, ha dato il via libera alla realizzazione di circa 3.500 nuove abitazioni da costruire negli insediamenti di Ma’ale Adunim, Efrat e Kedar. A sostenere questo provvedimento è stato il ministro Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso e ministro delle Finanze del governo in carica. Durante il mandato di questo esecutivo è stata approvata la costruzione di 18.515 nuove abitazioni da realizzarsi in territorio palestinese.

A creare ulteriori tensioni, anche all’interno dello stesso Stato d’Israele, è la continua concessione di nuovi privilegi da parte del governo a questi gruppi religiosi ultraortodossi, ai quali con un recente provvedimento legislativo è stato concesso un finanziamento di 3,4 miliardi di euro che andranno a sostegno delle scuole religiose nelle quali non si insegnano materie laiche, come la matematica, le scienze, le lingue, ma soltanto testi e argomenti sacri. A questo si aggiunge anche l’aumento dei sussidi per i maschi ultraortodossi che studiano a tempo pieno nei seminari religiosi, non lavorano e sono esonerati dal servizio militare, che invece è previsto per la maggioranza dei cittadini israeliani. La vita di questi Haredim si svolge intorno alla comunità, alla preghiera e allo studio dei testi sacri: da bambini entrano in scuole religiose che continuano a frequentare anche da adulti. Non lavorando, sopravvivono per lo più grazie a donazioni o sussidi statali. Il particolare status privilegiato di cui godono risale alla fondazione dello stato di Israele: il governo di Ben Gurion (primo premier della storia del Paese) riteneva che il loro contributo fosse fondamentale per la formazione di un’entità nazionale di carattere ebraico, e garantì loro una serie di concessioni che sono state mantenute ed estese nel corso degli anni. Ancora una volta la religione ha mostrato il suo vero volto, confermando che non è mai veramente cambiata. Come nel medioevo gli eserciti “cristiani” si battevano contro gli “infedeli”, per invadere i loro territori e annetterseli, così oggi accade in Palestina, dove i fanatici religiosi ultraortodossi, fondamentalisti e sordi ad ogni forma di rispetto per chi non la pensa come loro, che sono i veri “timorati di Dio”, sono la vera causa dei massacri di quest’ultimo conflitto. Il loro fondamentalismo assomiglia notevolmente a quello di molte sette, per lo più di origine americana, fra le quali chi si allontana dalla “vera fede”, viene pesantemente ostracizzato. Così accade fra gli ultraortodossi: guai a chi si allontana dalla loro visione ristretta e deviata delle regole di vita: si è banditi per sempre dalla comunità e ripudiati dalla famiglia.

E veniamo, adesso, al perché del titolo di questo articolo: l’altra faccia della guerra. Quest’altra faccia è rappresentata dal fatto che lo spietato massacro di Hamas non è sorto dal nulla; pur senza alcuna giustificazione – come abbiamo detto – i precedenti storici che da quasi ottant’anni tengono il popolo palestinese privo di una patria ed espropriato delle proprie case e della propria terra sono questi, ovvero il ricatto a cui soggiace adesso in modo particolare il governo d’Israele e specialmente il suo primo ministro, ad opera degli ultraortodossi, che ha messo in stato di crisi l’intera nazione creando forte tensione tra le componenti laica e religiosa presenti all’interno del paese, dovuta allo spostamento verso un maggiore integralismo religioso negli ultimi anni. Le scelte adottate finora dal governo Netanyahu vengono considerate da gran parte della popolazione una violazione del principio di uguaglianza perché sempre più religiose e autoritarie. Da parte loro, gli ultraortodossi rincarano la dose, accusando perfino la Corte Suprema di limitare la loro libertà religiosa e temono che essa possa opporsi ai loro progetti di espandere gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, territorio che per la comunità internazionale appartiene ai palestinesi, e che invece è parzialmente occupato da Israele sin dal 1967.

Quindi, il massacro del 7 ottobre non ha una giustificazione, ma ha una storia; ed è a questa storia e all’atteggiamento intransigente e ostinato del governo d’Israele, che dimostra in tal modo di non essere di “buona volontà”, che si deve ciò che ormai è divenuto veramente inaccettabile. Questa è l’altra faccia della guerra. E ci sembra molto appropriato far intervenire ancora una volta Antonio Scurati che, nel suo articolo “Pietà per i bambini di Rafah”, così scrive: “L’incursione delle forze israeliane a Rafah mette a rischio la vita di seicentomila minori. Dall’inizio dell’escalation più di metà della popolazione di Gaza si è, infatti, rifugiata a Rafah. Emettendo un ordine di trasferimento forzato, in assenza di un piano di evacuazione che garantisca la continuazione degli aiuti umanitari, il governo di Israele sta, di fatto, condannando molti di quei bambini alla denutrizione, alla malattia e, in non pochi casi, alla morte”. Egli aggiunge, poi, che “il principio della pari dignità di ogni vita pone l’umanesimo a fondamento della società democratica … la pietà per i figli del popolo palestinese dev’essere un imperativo politico per ogni sincero democratico … Purtroppo, però, è caratteristica di questa immane tragedia che vittime e carnefici si scambino continuamente di posto. Nei giorni, settimane e mesi successivi alla carneficina abbiamo assistito sgomenti al massacro perpetrato dall’esercito israeliano tra la popolazione civile di Gaza. Lo spettacolo delle vittime abbrutite dalla violenza fino a diventare carnefici è a tal punto agghiacciante da lasciare senza fiato, senza parole, senza speranza. Era accaduto ai palestinesi di Hamas, è accaduto agli israeliani di Netanyahu. Una implacabile inimicizia letale e mimetica tende a confondere i massacrati di ieri con i massacratori di oggi. Come condurci, dunque, in questa luce crepuscolare che sfuma nella tenebra? Innanzitutto bisogna ostinarsi a porre il problema dell’azione come problema morale, a chiedersi cosa sia giusto fare … possiamo discernere, e abbiamo il dovere di farlo. Dobbiamo distinguere tra la vittima e il carnefice, perfino e soprattutto quando coincidano nel medesimo soggetto allorché la vittima di ieri sia divenuta il carnefice di oggi. Dobbiamo ribadire che non è lecito, abbandonandosi all’ideologia vittimaria, giustificare con la violenza subita la violenza perpetrata. Dobbiamo distinguere, all’interno di Israele, tra le gravissime responsabilità dell’attuale maggioranza populista reazionaria e l’opposizione progressista, tra governo e Stato, tra fanatici guerrafondai e piazze pacifiste. Dobbiamo distinguere, soprattutto, tra Hamas e il popolo palestinese. E, reciprocamente, distinguere tra il popolo palestinese e Hamas: se vogliamo tenerci solidamente ancorati al principio che i sadici stragisti di Hamas non rappresentino l’intero popolo palestinese, dobbiamo agire di conseguenza, cioè fare tutto il possibile per condannare e fermare l’offensiva militare israeliana che imputa all’intera popolazione civile di Gaza i delitti di Hamas”. È questo, ed è imperativo, il compito della politica, sulla quale tutti noi dobbiamo fare pressione, esortando affinché i nostri governi premano su quello di Israele affinché rispetti il divieto di trasferimento forzato dei civili previsto dal diritto internazionale umanitario, affinché fornisca loro i beni necessari alla sopravvivenza, affinché ponga fine al loro massacro con un immediato cessate il fuoco”.

Nessuno tragga l’erronea conclusione che qui si stia condannando il popolo d’Israele che ha il sacrosanto diritto di difendersi e di garantire sicurezza ai suoi cittadini, che non saranno mai al sicuro finché Hamas non sarà eliminato dalla faccia della terra. E nessuno dimentichi che nel piangere per le vittime palestinesi, dobbiamo fare altrettanto per gli ostaggi ancora in mano ai tagliagole di Hamas, la paura per la vita dei quali, ogni giorno che sorge, aggiunge strazio su strazio per le loro famiglie. E ancora nessuno osi giustificare l’ondata crescente di antisemitismo che sta contagiando il mondo, alla quale ha dato avvio l’eccidio del 7 ottobre. In un suo recente intervento al convegno sull’antisemitismo al Cdec a Milano, la senatrice a vita Liliana Segre riflette ma lascia poche speranze per chi crede che sia possibile uscire dal vicolo cieco di chi, per criticare il governo Netanyahu, attacca le persone di fede ebraica, per chi paragona la croce uncinata dei nazisti alla stella di Davide, di chi attacca gli ebrei colpevoli soltanto di esistere. E, prendendo anch’egli la parola, il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ci ha posto di fronte ad una drammatica realtà che quasi nessuno conosce, ma che rappresenta una minaccia mortale per tutti noi: “Ci sono attori stranieri, russi (non dimentichiamo che furono loro a mettere in circolazione i famosi Protocolli dei savi di Sion) e cinesi, che hanno interesse a diffondere odio contro Israele e contro gli ebrei per diffondere lo scompiglio, per dividere l’Occidente su temi che lo lacerano, così da renderlo instabile. In questo modo, per la Russia diventa più facile diffondere i propri interessi. Questa campagna di delegittimazione di Israele, dipinta come entità coloniale, è la copia del modello con cui la Russia si sta installando nel Sahel. Siamo di fronte a un volume di attacchi agli ebrei mai visto prima. Tutto questo non riguarda solo gli ebrei, ma una realtà più grande, la nostra società occidentale: la vera ragione dello scontro è l’attacco ai sistemi democratici”.

Chi pensava che la strage di Hamas e l’eccessiva risposta d’Israele fossero entrambe da condannare, ponendole sullo stesso piano, adesso sa qual è l’altra faccia della guerra, quella nascosta che cela interessi che riguardano anche tutti noi. Meditate, gente, meditate!

1 commento su “L’altra faccia della guerra”

  1. elio mottola

    Condivido pienamente l’eccellente lavoro dell’amico Sergio che descrive con grande chiarezza i termini del conflitto israelo-palestinese sottolineandone anche la collocazione nel più ampio disegno di demolire le democrazie occidentali. Aggiungerei la semplice constatazione che tra i vari fondamentalismi religiosi e i partiti nazionalisti esiste un rapporto di reciproca utilità da cui nascono spesso le più bellicose dittature

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