Il rebus del terzo mandato

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Manifestazione di sindaci

Alcune considerazioni molto personali e quindi ampiamente discutibili sulla questione del “terzo Mandato” si rendono opportune data la grande attualità dell’argomento. La prima osservazione è di natura astratta: in un paese in cui la democrazia potesse dirsi veramente tale e cioè vigessero la rigorosa divisione dei poteri, la piena libertà di stampa e un’opinione pubblica avvertita, bene informata e sensibile ai diritti della persona e del cittadino il problema del terzo mandato non avrebbe alcuna ragion d’essere né per il governo delle regioni, né per quello dei comuni né tantomeno per le assemblee elettive in generale. In un simile contesto gli amministratori legittimamente eletti risponderebbero del loro operato ai propri elettori al termine di ciascuno dei mandati, mentre in corso d’opera la legittimità delle loro decisioni sarebbe confermata o messa in discussione dalla libera stampa e, se necessario, dalla magistratura. Limitare ulteriori candidature sarebbe anzi un dànno per la collettività costretta a rinunciare alla riconosciuta competenza ed all’esperienza acquisita. Tutto ciò senza dimenticare che l’amministratore locale non è un monocrate, ma guida una giunta esecutiva e deve dar conto ad una assemblea elettiva. In proposito appare pretestuosa l’argomentazione portata avanti dai sostenitori della limitazione dei mandati secondo la quale l’adozione di una simile misura favorirebbe il ricambio delle élites politiche che viene invece assicurata con il naturale rinnovamento dei membri dei consigli regionali e comunali.

Tanto chiarito in linea di principio, non ci sarebbe dunque nessun valido motivo per impedire agli elettori soddisfatti di rieleggere per, anche l’ennesima volta, una persona che ha saputo gestire la cosa pubblica con competenza ed onestà. Nel caso contrario gli elettori stessi, correttamente informati delle irregolarità, dei favoritismi o degli abusi posti in atto dall’amministratore da loro portato al potere gli negherebbero la conferma, cosa possibile anche subito dopo il primo mandato, come avviene tante volte nella realtà.

Ma in Italia, come nel resto del mondo, la democrazia, quando c’è, non è perfetta e quindi favoritismi, abusi e malversazioni dei pubblici amministratori si affacciano da tempo con crescente frequenza. Gli elettori sono in maggioranza male informati e i tempi della giustizia, quando viene chiamata in causa, sono così lunghi da risultare inefficaci anche nel medio termine. Questo stato di fatto generò nel M5s l’idea di limitare addirittura i mandati parlamentari giudicando anche l’attività legislativa e di controllo dell’esecutivo, ancorché collegiale, esposta a comportamenti sempre più scorretti con l’andare del tempo. Ma questa diagnosi, di forte carica propagandistica, nasceva dal sentimento antipolitico del movimento che lo spinse a chiedere anche la drastica riduzione del numero di parlamentari poi effettivamente approvata nella scorsa legislatura. La diffidenza verso la politica, inaugurata in verità già dalla Lega Nord di Bossi sul finire degli anni ’80 del secolo scorso al grido di “Roma ladrona”, è cresciuta con i grillini fino a diventare un pregiudizio negativo nei confronti della politica e di tutti i politici, nel quale la maggioranza degli italiani si riconosce avendo assistito, dopo la breve parentesi risanatrice di “Mani pulite”, ad un crescente malcostume, causa principale del massiccio astensionismo che conosciamo.

L’ipotesi di consentire il terzo mandato appare dunque poco in linea col clima di sfiducia dominante, che andrebbe però contrastato. Si può partire dalla considerazione che, anche nello scenario moralmente depresso della politica italiana, è doloroso dover escludere dalla terza candidatura amministratori che hanno gestito efficacemente ed onestamente il potere loro affidato per ben due volte consecutive (Zaia per tre) e i casi concreti che cadrebbero sotto questa limitazione non sembrano, nel complesso, molto distanti da questa valutazione. Occorre poi considerare, più in generale, che la consapevolezza di non poter essere rieletti potrebbe determinare un calo di attenzione ai problemi della collettività amministrata, specialmente se la loro soluzione richiede una programmazione pluriennale. Negli amministratori meno scrupolosi questa consapevolezza potrebbe addirittura spingerli verso qualche piccolo o grande abuso.

Ma l’argomento più solido per sostenere l’ammissibilità del terzo mandato, argomento che dovrebbe stare a cuore proprio a chi contesta l’antipolitica, è che la limitazione al secondo mandato chiude definitivamente ogni speranza nel necessario ritorno dell’etica pubblica e certifica la sconfitta definitiva della politica.

Tornando alla situazione presente, se ci fosse l’occasione di una votazione in Parlamento, magari col voto segreto, la Schlein farebbe bene a concedere la libertà di voto. Così facendo raggiungerebbe il duplice scopo di dare sfogo alla minoranza del PD favorevole al terzo mandato e di fornire un ombrello anche agli eventuali dissidenti del M5s. Resterebbe comunque difficile capovolgere il risultato previsto, ma l’apertura alla minoranza interna del PD potrebbe, tanto per cominciare, coinvolgere l’elettorato che fa capo a Bonaccini, Emiliano, De Luca e al sindaco De Caro in maniera più convinta alle prossime, fondamentali elezioni europee. Se nulla cambia, per le elezioni regionali il Pd rischia di perdere regioni cruciali come la Campania, la Puglia e, soprattutto, l’Emila Romagna. Tragica prospettiva da scongiurare a qualunque costo. 

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