Homo sapiens?

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Ho appena finito di leggere lo stralcio di un libro di prossima pubblicazione: l’Urlo, di Tahar Ben Jelloun, uno dei massimi scrittori viventi di etnìa araba. È un saggio imperdibile, perché con parole accorate mette tutti noi di fronte alla domanda su cosa, in questa tragedia infinita, rimane ancora di umano e perché si travalica sempre più spesso nel disumano. L’articolo comincia con queste parole: «Io, arabo e musulmano di nascita, di cultura ed educazione marocchina tradizionale, non riesco a trovare le parole per esprimere l’orrore che provo per ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei. La brutalità, quando attacca donne e bambini, diventa barbarie e non ha scuse o giustificazioni. Sono inorridito perché le immagini che ho visto hanno toccato nel profondo la mia umanità».

La parola cruciale qui è umanità, ed essa proviene da umano, un termine che nelle lingue usate nella cultura occidentale, ma non solo, è impiegato con due significati principali. Nel linguaggio scientifico indica ciò che è tipico dell’uomo in contrapposizione a ciò che è tipico di altre forme viventi. Nel linguaggio comune è sinonimo di buono, comprensivo, caloroso, competente in quella forma particolare di competenza che è l’attenzione e la cura per le «creature» che compongono il nostro universo, appartengano o meno alla nostra specie. Questa seconda accezione, la più comune, quella che ci riguarda da vicino perché costituisce un tratto fondante della vita sociale, racchiude in sé l’ideologia che ha permeato e permea la nostra civiltà: l’idea che l’umano sia il bene, il vertice della vita sulla terra, lo stadio più alto dell’evoluzione. In generale, quando si parla di uomo con queste caratteristiche si presuppone, forse anche inconsciamente, che l’uomo di cui parliamo sia l’uomo bianco. La razza bianca è da sempre stata considerata la forma di vita più alta del pianeta, sebbene la specie umana sia quella che è arrivata per ultima fra tutte le specie viventi, circa tre milioni di anni fa, quando fecero la loro comparsa i primi ominidi, un periodo di tempo insignificante, se pensiamo che la vita sulla terra, o meglio nel mare, ebbe inizio più o meno tre miliardi di anni fa. Ed è un fatto singolare, come preciseremo più avanti, che essa abbia la sua culla nel continente che, fra tutti gli altri, da molti e per secoli, è stato considerato l’habitat di una specie inferiore alla razza bianca. I neri, o come si usava dire una volta, i negri. Noi tutti, siamo figli dell’Africa.

Gli esseri umani, come tutte le altre specie viventi, sono frutto di un lunghissimo processo evolutivo che, oggi, ci ha portato ad essere quello che siamo, con le nostre caratteristiche fisiche, la nostra cultura, i nostri sentimenti. Noi oggi pensiamo d’essere in grado di distinguere il bene dal male, e abbiamo stabilito che è quella del bene la via giusta. Perfino in una ben nota preghiera l’orante chiese “liberaci dal male”. Ciò nonostante, è il male che ha quasi sempre prevalso sul bene, e la lunga storia del genere umano è lì a dimostrarcelo con fatti che non possono essere smentiti. Ci sono momenti della storia, della nostra storia, che risale a pochi millenni fa, in cui tutto ciò che riteniamo di aver realizzato in secoli di civilizzazione e di progresso, scompare in un batter d’occhio. E, come scrive Ben Jelloun: «Sgozzare … È stata l’ISIS, l’organizzazione dello “stato islamico”, a fare dello sgozzamento una prassi abituale per eliminare gli occidentali presi in ostaggio. Tale pratica è un’aberrazione che va di pari passo con la ferocia di queste persone che hanno preso l’Islam a bandiera per commettere i peggiori crimini. Un taglio, un colpo secco e finale, e il sangue sgorga come da una generosa fontana. È uno spettacolo progettato per catturare lo sguardo occidentale, per trafiggere l’occhio della civiltà». E qual è il commento dello scrittore su queste atrocità? È un commento che ci riporta all’inizio, quando abbiamo parlato di ciò che è umano e di ciò che non lo è. Egli così prosegue: «Hanno abbandonato l’umanità. E l’umanità non li riconosce più. Non sono nemmeno animali. Perché gli animali non fanno quello che hanno fatto loro. Non abbiamo mai visto animali attaccare strategicamente altri animali solo per impedir loro di respirare».

Quello di cui stiamo parlando è definito processo di “deumanizzazione”, ovvero quel meccanismo mentale che scatta quando cerchiamo una motivazione per compiere atti abominevoli che vanno contro tutto ciò che si ritiene buono e giusto. Ma questa non è una caratteristica esclusiva dell’Isis, o di Hamas, o di qualunque altro gruppo “umano” che compie stragi del genere. Per loro la motivazione è che la vita di un “infedele”, ovvero di colui che non abbraccia la loro religione, la religione di Allah Akbar, “Allah è il più grande”, non è quella di un essere umano, è quella di uno scarto indegno di vivere sulla terra che Maometto ha assegnato loro e che prevede lo sterminio degli infedeli, proprio come facevano gli uomini bianchi con il segno della croce sul petto, quando sterminavano quelli di fedi diverse, considerandolo un sacro incarico ricevuto da Dio.

Non vi è differenza fra le razze quando si parla di deumanizzazione ma, guarda caso, è proprio la “razza bianca” quella che si è resa responsabile dei peggiori eccidi della storia. La razza bianca, la razza colonizzatrice, quella alla quale era stato affidato il compito di portare la civiltà in terre abitate da barbari, da gente con pelle di colore, lingua, usi e costumi diversi, pur essendo sempre esseri umani a pieno titolo. Per non dimenticare che questo è quello che accade da quando l’uomo è diventato “Sapiens”, rivolgiamoci all’archeologia e diamo un’occhiata a ciò che avveniva 300.000 anni fa. «A quel tempo la specie umana che popolava la terra era rappresentata dal cosiddetto “uomo di Neanderthal”. Per molto tempo gli scienziati hanno creduto che sapiens rappresentasse uno stadio evolutivo più avanzato di neanderthalensis e che per questo motivo lo avesse sostituito nel tempo. L’immagine deumanizzata dei neandertaliani si è diffusa fuori dall’ambito scientifico: romanzi e film li hanno presentati come scimmioni privi di razionalità e incapaci di sentimento. Eppure se andiamo nel museo di Aleppo e osserviamo lo scheletro di un bambino neandertaliano, la cui sepoltura è stata ritrovata pochi anni fa in Siria, il riconoscimento è immediato: è uno di noi. Guardandolo ci chiediamo cosa possa aver causato la sua retrocessione dalla piena umanità. Oggi sappiamo che i neandertaliani erano uomini di una specie diversa dalla nostra, con una cultura sviluppata; sappiamo che sapiens e neanderthalensis hanno coesistito per millenni, sappiamo anche che, con tutta probabilità, neanderthalensis era meno aggressivo di sapiens, e cominciamo a intuire che ciò che ha permesso alla nostra specie di sostituirli è stata proprio la nostra superiore aggressività, la capacità di mantenere l’intelligenza al servizio della lotta e dell’annichilimento di chi di volta in volta consideriamo nemico. La deumanizzazione di Homo Neanderthalensis può essere considerata l’esempio di una forma radicale di svalutazione che percorre la storia dell’uomo, accompagnando conflitti e stermini. Deumanizzare significa negare l’umanità dell’altro — individuo o gruppo — introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità antropiche dell’umano e chi ne è considerato privo o carente. (brani tratti da Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, di Chiara Volpato, ed. Laterza, 2011)

Ma non è necessario andare così indietro nel tempo per renderci conto che quella della deumanizzazione è una caratteristica che ha sempre accompagnato la vita del sapiens. Nella civilissima Grecia, patria del pensiero filosofico, la categoria degli schiavi era considerata per natura appartenente a un gruppo prossimo a quello degli animali. Gli schiavi non erano uomini, erano “cose”, strumenti, proprietà privata del padrone. Il trascorrere del tempo ha accentuato, non diminuito, questa caratteristica dell’Homo Sapiens. Basta pensare alla scoperta e alla colonizzazione dell’America. Lo sterminio delle popolazioni americane è sorretto da un’ideologia che appiattisce l’immagine dei nativi su quella delle bestie. Basti pensare al fatto che i filosofi spagnoli discussero a lungo se gli indiani fossero uomini o scimmie, mentre quei popoli avevano dato vita a delle civiltà che non avevano niente da invidiare alla nostra: Maya, Incas, Aztechi, con le loro magnifiche culture e le loro splendide opere edilizie, non erano certamente inferiori agli europei; e lo stesso può dirsi dei nativi del Nord America, che vennero etichettati come “selvaggi”, “musi rossi”. Lo stesso padre degli Stati Uniti, George Washington, dichiarò nel 1783 che gli indiani erano simili ai lupi, essendo entrambi animali da preda sebbene di forma diversa. Gli indiani erano comunemente descritti come bestie ripugnanti, sporche e inumane, porci, cani, lupi, serpenti, maiali, babbuini, gorilla, oranghi. Tutto questo portò inevitabilmente allo sterminio di tutte le popolazioni indigene del nuovo continente, mentre esattamente lo stesso avveniva nel vecchio, e precisamente in Africa, da dove i nuovi colonizzatori, per lo più anglosassoni e francesi, depredavano le popolazioni locali per trasferirle a milioni nelle nuove terre, dove li avrebbero utilizzati come animali da soma, alla stregua dei buoi, dei muli, dei cavalli. Ci asteniamo del continuare, e volgere lo sguardo anche agli altri continenti perché ripeteremmo le stesse cose anche se in ambiti geografici diversi.

Ma la deumanizzazione non è stata però confinata allo scenario coloniale e alla diversità etnica. Nel corso dei secoli è stata impiegata per designare le donne, per marginalizzare le classi povere. Le donne sono state animalizzate, oggettivate, demonizzate. Per secoli, nel Medioevo, e soprattutto in epoca moderna, la deumanizzazione è stata la forma privilegiata che ha provocato decine di migliaia di esecuzioni durante la caccia alle streghe. Secondo l’autore del Malleus Maleficarum (il martello delle streghe), le donne «sembrano appartenere a una natura diversa da quella degli uomini». E, purtroppo, i recenti episodi di cronaca, mostrano che ancora, in quest’era così “digitalizzata” e sviluppata, per molti uomini le donne sono una loro proprietà di cui poter disporre a loro piacimento, perfino togliendo loro la vita.

E, infine, a mo’ di chiosa, vogliamo sottolineare un ultimo aspetto della ferocia e dell’indifferenza del sapiens verso qualunque altra forma di vita, anche se sia appartenente alla sua specie, e tanto più se è la vita di altre specie. Tutti noi sappiamo come i bambini facciano facilmente amicizia con gli animali; sappiamo quanto essi adorino i coniglietti, gli orsacchiotti, i vitellini con i loro occhi dolci, i puledri, le paperelle; ma quando ci si siede a tavola nessuno ha il coraggio di spiegar loro come quel cibo è giunto nei loro piatti. A nessun bambino faremmo mai vedere lo sterminio industriale, le tonnellate di sangue che ogni giorno vengono versate nei macelli di tutto il mondo e che il suo coniglietto adorato è adesso il suo pasto. Si è calcolato che ogni anno vengano massacrati 70 miliardi di animali per rifornire le nostre tavole. È vero che in questo caso non si può parlare di deumanizzazione, perché gli animali non sono umani, ma non v’è dubbio che siano anch’essi, come qualcuno usa dire, “creature di Dio”, esseri senzienti, capaci di soffrire oltre che fisicamente anche mentalmente e che noi facciamo vivere in veri e propri lager in condizioni, è il caso di dirlo, “bestiali”. La natura è prodiga di alimenti che possono benissimo sostituire la carne e, per citare ancora una volta il libro sacro dei cristiani, ai primi uomini Dio disse che potevano nutrirsi soltanto di vegetazione e di frutta (ma questa è una digressione che non intende colpevolizzare nessuno).

Ritorniamo a Tahar Ben Jelloun e al suo grido di dolore nel descrivere l’orrore quotidiano che stiamo vivendo. «L’orrore è un fatto tutto umano. Un ministro del governo Netanyahu ha definito gli abitanti di Gaza “animali”. No, ci sono uomini senza coscienza, senza morale, senza umanità che hanno compiuto dei massacri, e poi c’è una popolazione che soffre, che non è né armata né barbara … Ho visto madri in lutto che non avevano più lacrime da versare. Lo stesso succedeva due settimane dopo a Gaza dove un uomo circondato dai suoi tre figli morti sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano, piange la sua solitudine e la sua tragedia».

E allora? Ci sentiamo ancora degni di essere stati definiti da Carlo Linneo “Homo Sapiens”? Se quella che vediamo operare ininterrottamente da centinaia di migliaia di anni è il risultato di un’evoluzione da forme di vita “inferiori” a quella “superiore”, non ci resta che augurarci che ci troviamo ancora in una fase evolutiva che, con il tempo, ci farà diventare veramente sapiens. Per adesso mi sentirei di definire la specie umana, nel suo complesso, “Homo horribilis”.

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