Questa è la mia terra!

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Mappa dei Territori Palestinesi (Cisgiordania e Striscia di Gaza), contrassegnata dalla Linea Verde. Sulla base della mappa di riferimento: Territori palestinesi occupati: mappa panoramica, a dicembre 2011. Pubblicata dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Fonte: Wikipedia)

Per poter capire il presente è necessario, anzi indispensabile, conoscere il passato, perché molto spesso ciò che accade oggi è frutto di eventi verificatisi poco, molto o moltissimo tempo prima, che poi si riverberano sugli accadimenti odierni.

Oggi, sotto i nostri occhi scorrono continuamente immagini raccapriccianti e sconvolgenti su ciò che la guerra israelo-palestinese sta producendo. La stampa, alla quale spesso ci rivolgiamo, non sempre è affidabile, in quanto di frequente è schierata, a volte addirittura faziosa, e descrive lo stesso argomento da punti di vista nettamente divergenti, e quindi inattendibili. Lo stesso vale per le fonti mediatiche, siano esse le reti nazionali, private, i vari forum e tutta la pletora dell’universo digitale che, in un’assordante cacofonia di voci e opinioni, lascia solo molta confusione e senza risposte. A chi, dunque, rivolgersi per cercare di capire e riflettere? C’è un testimone imparziale cui affidarsi? Sì, c’è, ed è la Storia. La Storia, per definizione, è neutrale, narra e descrive i fatti come si sono svolti, sempre sperando che i loro narratori lo facciano con onestà intellettuale. La Storia, si dice, è magistra vitae, ma con il trascorrere del tempo questa magistra è sempre meno ascoltata e i suoi insegnamenti incontrano un numero crescente di orecchie sorde.

La storia che vogliamo narrare è quella del conflitto israelo-palestinese; ma in questa narrazione c’è una difficoltà di base. A quando deve farsi risalire il racconto? C’è una data importante che dovrebbe fare da spartiacque fra il prima e il dopo, ed è quella della nascita “ufficiale” dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, quando un pronunciamento delle Nazioni Unite segnò la divisione di quella terra in due Stati, uno arabo e uno ebraico: due Stati, due popoli; sembrava la soluzione ideale. C’è, però, da dire che ci fu, a cominciare dagli arabi, chi non accettò, né sottoscrisse quel pronunciamento, e chi riteneva fosse ingiusto assegnare ad altri, oltre che agli ebrei, una terra che per millenni era stata la loro patria e, dal punto di vista religioso, era la patria solennemente concessa da Dio al fondatore di quel popolo: Abramo, al quale Yahweh aveva detto: “Esci dalla tua terra, dalla tua gente, dalla casa del padre tuo, e vieni nella terra che ti additerò … Darò questa terra alla tua discendenza” (Genesi 12:1, 7). Al suo ritorno dall’Egitto, Dio ribadì ad Abramo la sua promessa: “Tutta la regione che tu vedi, io la darò a te e alla tua discendenza, in eterno … darò alla tua stirpe questa terra, dal fiume d’Egitto al gran fiume Eufrate … tutta la terra di Canaan in perpetuo possesso” (Genesi 13:15; 17:8).

Per gli israeliani di fede ebraica e, teoricamente, per tutti coloro che considerano la Bibbia la “parola di Dio, immutabile ed eterna”, il problema non dovrebbe nemmeno porsi: questo è il loro paese da quattromila anni (e non dal 1948) e a nessuno è consentito di porvi piede, se non a coloro ai quali Dio lo ha solennemente concesso

Ovviamente, quando le Nazioni Unite si riunirono per emanare la loro decisione salomonica, fra i documenti che furono esaminati non vi era certamente una copia della Bibbia che, pertanto, non fu presa in nessuna considerazione, sebbene essa sia considerata, fino ad oggi, un autorevole punto di riferimento in ogni campo per centinaia di milioni di cristiani, ebrei e, parzialmente, anche dagli islamici.

La saggia decisione dell’ONU ebbe però un effetto del tutto imprevisto. All’indomani di essa, una coalizione araba, composta da Egitto, Siria, Libano, Giordania e Iraq, scatenò una guerra senza quartiere contro la neonata nazione, con la quale cinque potenti eserciti arabi avrebbero dovuto annientare in un batter d’occhio l’esercito appena nato d’Israele. La guerra fu una catastrofe (Nabka) per gli arabi coalizzati, e una disastrosa sconfitta per i loro eserciti.

Ma la schiacciante e sonora sconfitta non impedì a tutto il mondo arabo, o quasi, di ritenersi in una guerra perenne con Israele, la Jihad, la cui ragion d’essere è l’odio dei confronti degli ebrei, prendendo in questo il posto del nazismo, e che si protrae ormai da più di settant’anni, con un unico e dichiarato scopo: spazzar via per sempre gli ebrei dalla faccia della terra. Detto per inciso, dei palestinesi, anch’essi vittime, non importa a nessuno, e men che meno agli arabi. Hamas e i suoi capi sapevano benissimo che il loro vile attacco avrebbe avuto come risposta lo sterminio di migliaia di loro fratelli arabo-palestinesi e, ciò nonostante, non hanno avuto il minimo scrupolo a scatenare il conflitto, dopo avere, per anni, fortificato la striscia di Gaza proprio a questo fine.

Dato che abbiamo detto che bisogna conoscere il passato per comprendere il presente, cominciamo da loro, il popolo palestinese, lo Stato palestinese, la nazione palestinese, della quale Israele sta ormai da decenni inglobando sempre maggiori porzioni di territorio. Cominciamo col dire che la zona nella quale oggi si combatte è una regione che i Filistei, una popolazione originaria del Mediterraneo orientale, invasero più di mille anni prima di Cristo, e che prese quindi il nome di “Philistia”; mille anni più tardi i romani la chiamarono “Palestina” e seicento anni dopo gli arabi la battezzarono “Falastin”. Per inciso, anche nella Bibbia, nel libro di Ezechiele, si parla già dei Filistei, nemici d’Israele, contro i quali Dio promette di esercitare la sua vendetta, cosa che, per chi prende alla lettera la Bibbia, si vede all’opera anche oggi (Ezechiele 25:15-17).

Da allora in poi non è mai esistita una nazione chiamata “Palestina”, né c’è mai stato un popolo chiamato “palestinese”. La regione ora contesa passò dagli Omayyadi agli Abassidi, dagli Ayymidi ai Fatimidi, dagli Ottomani agli Inglesi. Durante questo millennio il termine “Falastin” continuò a riferirsi a una regione dai contorni indefiniti e MAI a un popolo originario. Nel 1695 un orientalista danese, Hadrian Reland, scoprì che nessuno degli insediamenti conosciuti aveva un nome arabo, in quanto la maggioranza dei nomi di quei pochi insediamenti erano ebraici, greci o latini. Era un territorio praticamente disabitato con poche città (Gerusalemme – sicuramente ebraica –, Jaffa, Tiberiade e Gaza) i cui abitanti erano ebrei o cristiani; vi era anche una modesta minoranza musulmana, costituita da beduini nomadi che viveva nell’interno. Il libro che lo studioso danese pubblicò, insieme a molti altri, su ciò che era il risultato delle sue esplorazioni si intitolava Palaestina ex Monumentis Veteribus illustrata (La Palestina illustrata da monumenti antichi) ed in esso non c’è la minima prova che esistesse un popolo palestinese, né un’eredità palestinese, né una nazione palestinese. Niente di niente.

Se, quindi, un “popolo palestinese” non esisteva fino a circa 200 anni fa, mentre quello ebraico era nazione da quattromila anni, quand’è che viene all’esistenza la realtà di un popolo e una nazione palestinesi, vessati e cacciati dalle loro terre? Si tenga presente che la superficie della nazione d’Israele è uguale pressappoco a quella della Sicilia, mentre gli stati arabi “fratelli” dei palestinesi e confinanti con loro, nel loro insieme ricoprono una superficie di milioni di chilometri quadrati disabitati, in una parte dei quali potrebbero benissimo trovare ospitalità i palestinesi, anche loro arabi e risolvere così un problema apparentemente insolubile. Una delle tante conferme dell’inesistenza di uno Stato palestinese e di un popolo palestinese ci viene data dalla voce autorevole di Zahir Mushe’in, membro del comitato esecutivo dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) che, il 31 marzo 1977, nel corso di un’intervista dichiarò: “Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele in nome dell’unità araba. In realtà oggi non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni tattiche e politiche parliamo dell’esistenza di un popolo palestinese, poiché gli interessi nazionali arabi richiedono la messa in campo di un popolo palestinese per opporci al sionismo”. É quindi evidente che qui non si tratta solo di una questione di territorio, ma di ben altro, e in questo “ben altro” non possiamo non includere la politica coloniale – e attuale – delle grandi potenze europee d’allora e di oggi. Quello che sembra emergere da tutto quanto precede è che parlare di “popolo palestinese” è una pura invenzione la quale, con grande abilità propagandistica, è stata trasformata in un fatto che ormai appartiene a tutti gli effetti alla realtà.

Dobbiamo adesso trasferirci nell’Europa del dopo Prima Guerra Mondiale, quando gli inglesi alla fine del conflitto e anche della caduta dell’impero ottomano crearono la cosiddetta “Palestina mandataria”; di che si trattava? A questo punto dobbiamo introdurre un altro elemento per fare un po’ di chiarezza nella intricata faccenda. Quando gli inglesi crearono la “Palestina mandataria”, vi fu una forte reazione negativa da parte degli arabi, perché per loro la Palestina faceva parte della Siria, tanto è vero che più che Palestina la definivano “Siria del sud” e, ovviamente, i siriani non potevano che essere d’accordo e, nel 1919, in un Congresso Generale Siriano, ribadirono che gli arabi della Siria del sud erano un popolo esclusivamente siriano, nessuna menzione di un popolo “palestinese”. La diatriba continuò per molto tempo fino a quando, nel 1947, nel periodo in cui le Nazioni Unite stavano valutando la spartizione della Palestina mandataria in due Stati separati, uno ebraico e l’altro arabo, vi fu una protesta generale da parte di politici e intellettuali arabi, i quali sostenevano che la regione in questione facesse parte integrante della Siria del sud; non esisteva una popolazione palestinese in senso vero e proprio ed era pertanto una grave ingiustizia smembrare la Siria per creare un’altra unità territoriale che già le apparteneva per diritto. Concetto formalmente espresso dieci anni dopo dall’ambasciatore saudita alle Nazioni Unite, Akhmed Shukairi che dichiarò: “È conoscenza comune che la Palestina non è altro che la Siria del sud”, al quale nel 1974 si unì nel ribadirlo il presidente siriano Hassad, secondo il quale “La Palestina non solo è parte della nostra nazione araba, ma è parte fondamentale del sud della Siria”.

Poco fa abbiamo fatto riferimento al mandato britannico. Gli inglesi, dopo aver sconfitto l’impero ottomano (i Turchi), nel 1917 producono la “Dichiarazione Balfour”, con la quale si intendeva agevolare la realizzazione del progetto “sionista”, termine coniato alla fine dell’800, quando un giornalista ebreo austriaco, Teodor Herzl, affermò la necessità di costituire uno Stato per gli Ebrei di Palestina. Le sue idee, in parte si rifacevano anche alle promesse bibliche di una terra tutta per loro nella quale non sarebbero stati discriminati, com’era avvenuto nei secoli precedenti in tutta Europa. Il progetto prevedeva la creazione di uno Stato fondato sulla religione e sulla razza, ed era accompagnato dal famoso slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Il movimento sionista diede l’avvio a una moderata immigrazione di ebrei in Palestina, che agli inizi fu molto lenta perché molti ebrei europei si sentivano pienamente cittadini delle nazioni in cui erano nati e non desideravano andar via. In questo progetto c’era però un vulnus, costituito dal fatto che gli inglesi, molto interessati al controllo del canale di Suez, che sarebbe stato tutelato dagli insediamenti ebraici in quella zona strategica per il commercio, nel 1915 avevano già promesso la Palestina agli arabi per l’aiuto prestato loro nella guerra contro l’impero ottomano. In tal modo l’impero britannico aveva promesso la stessa terra a due popoli: l’ebraico e l’arabo.

Poi accadde l’impensabile. In tutta Europa dopo gli anni ’30 nasce il nazifascismo, con le sue leggi razziali e la persecuzione degli ebrei; ciò diede una forte spinta al movimento migratorio di ebrei in Palestina (o Siria del sud, non dimentichiamolo), sicché già nel 1936 gli ebrei in quella terra erano più di 400.000, mentre sei milioni di loro fratelli venivano sterminati brutalmente per ordine del Führer, e sotto la direttiva di Adolf Eichmann.

Sebbene dapprincipio il rapporto fra i nuovi immigrati e gli arabi residenti fosse abbastanza pacifico, con il tempo si deteriorò perché l’Inghilterra attuò una politica di discriminazione della popolazione araba che sfociò nell’Intifada (rivolta), una guerra violenta degli arabi di Palestina contro gli ebrei e gli inglesi. Questa grande rivolta venne repressa nel sangue, in seguito all’arrivo nel territorio di 20.000 soldati inglesi che la domarono. Ma fu solo l’inizio di grandi difficoltà. Nel 1939, infatti, dipendente dagli stati arabi per le sue risorse petrolifere, la Gran Bretagna cominciò ad attuare una politica di limitazione all’ingresso dei coloni ebrei in quell’area. Subito ciò scatenò la reazione d’Israele che, per mano di gruppi paramilitari ebraici, che definiremmo meglio terroristici (Gruppo Stern, Irgun, e altri), scatenò attacchi a sorpresa contro gli inglesi e le autorità dell’ONU, nonché contro gli insediamenti civili palestinesi. Il governo inglese, ormai sopraffatto dalle tensioni provocate dalla sua politica altalenante, decise infine, nel 1947, di rinunciare al suo mandato sulla Palestina e in seguito a ciò intervennero le Nazioni Unite per porre fine, si sperava, alle tensioni sempre crescenti in quella zona.

La risoluzione n.181 dell’ONU, adottata con il “Piano di spartizione della Palestina” prevedeva la creazione di due Stati indipendenti: quello ebraico e quello arabo, con Gerusalemme zona internazionale controllata dalle Nazioni Unite. Gli ebrei accettarono questa soluzione, ma non i palestinesi e gli altri stati arabi. La reazione d’Israele non si fece attendere, all’alba del 9 aprile 1948 le truppe dell’organizzazione paramilitare terroristica Irgun radono al suolo il villaggio arabo di Dheir Yassin dove vengono uccise 250 persone, in maggioranza donne e bambini. L’attuazione di questo massacro ottenne il suo scopo: la diaspora palestinese che, per timore di ulteriori attacchi, diede avvio alla fuga dai villaggi della Galilea e dalla fascia costiera.

Lo spazio per un’intera cronologia della guerra “dei cent’anni” fra palestinesi e israeliani, richiederebbe ben più di un articolo e inoltre, almeno per il momento, nessuno ha la minima idea su come andrà a finire. È un continuo susseguirsi senza sosta e senza quartiere di guerre, guerriglie, attentati, ritorsioni, decisioni ONU, incontri diplomatici in varie sedi autorevoli da Camp David a Oslo, di accordi disattesi e di tanti altri tentativi, tutti andati a vuoto. E, come sempre accade, la ragione non sta mai da una parte sola; è quindi essenziale che le due parti in conflitto (dietro le quali si muovono grandi potenze, e ancor più grandi interessi finanziari e strategici) riconoscano i loro torti e cerchino un accomodamento permanente, come suggerisce Amos Oz, che fra poco citeremo. Ma troppo sangue è stato versato e troppo radicata è l’inimicizia fra i due popoli, non dimenticando mai che l’intento principale di Hamas e di tutti i suoi predecessori arabi è uno e uno soltanto: spazzar via Israele dalla faccia della terra, e portare a compimento la “soluzione finale” di hitleriana memoria. Con queste premesse oggi non si è in grado di intravedere una luce in fondo al tunnel. Per il momento, per dare un senso a questo scritto, oltre che quello storico, cercheremo di riassumere lo stato delle cose che ha portato all’eccidio del 7 ottobre.

È un fatto innegabile che Israele, avvalendosi della sua potenza militare, sostenuta fortemente dagli Stati Uniti, ha ridotto la vita degli abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania ad un vero e proprio inferno sotto ogni aspetto. Uno sconfortante articolo di Sami al–Ajrami su la Repubblica del 14 novembre descrive la situazione di Gaza paragonabile alle condizioni in cui vivevano i deportati ad Auschwitz. E, inoltre, la profonda divisione che esiste all’interno degli stessi palestinesi, spesso divisi in fazioni che si combattono fra loro, non è certo d’aiuto. D’altra parte, gli israeliani, come la storia ci ha insegnato, come tutti i popoli vincitori, e loro hanno vinto pressoché tutti i conflitti contro gli arabi, si ritengono legittimati a mantenere il controllo sui territori conquistati – ֪ed in questo niente di nuovo sotto il sole –, e a favorire continui insediamenti di coloni ebrei in terre che i palestinesi considerano di loro proprietà. Tutto questo ha facilitato l’ascesa di Hamas, movimento estremista e terrorista, che si propone come il “vero difensore” della causa palestinese, agevolato in questo dal fatto che dalla fine del governo sostenuto dai laburisti di Ehud Olmert, in Israele è andato al potere un governo di destra nazionalista, il cui ultimo (si spera) campione è Benjamin Netanyahu, ormai al potere da molti anni, essendo stato primo ministro a più riprese a cominciare dal 1996 (cinque mandati), e paragonabile ad Ariel Sharon in quanto ad atteggiamenti estremisti, e il cui  governo è il più di destra e religioso della storia di Israele. Il suo partito, il Likud, governa in una coalizione con partner ultranazionalisti e ultraortodossi non disposti a nessuna concessione.

Secondo Amos Oz, ben noto e apprezzato scrittore israeliano, se si desidera veramente la risoluzione della decennale e insanabile guerra fratricida, la via è quella dei “due Stati, due popoli” (che fu il sogno non realizzato di Rabin e di Arafat). Così egli scriveva sul Corriere della Sera del 4 marzo 2015, anni prima della carneficina del 7 ottobre: «Iniziamo dalla cosa più importante, una questione di vita o di morte: se non ci saranno due Stati, ce ne sarà solo uno; se ce ne sarà uno solo, sarà arabo; se sarà arabo, chissà quale sarà il futuro dei nostri e dei loro figli. Uno Stato arabo, quindi, dal mare al fiume. Non uno stato binazionale, poiché gli stati bi e multinazionali non hanno un futuro promettente: difatti tendono a frantumarsi o a dissanguarsi fino all’annientamento. E difatti, immaginare che palestinesi e israeliani, che si sono inflitti finora reciprocamente tante e tali sofferenze, siano disposti all’improvviso a voltar pagina e ad accogliere una pacifica ed equa convivenza, appare a dir poco una chimera. Dopo un’eventuale separazione, in un futuro lontano, potrebbero anche adottare una qualche forma di cooperazione, ma non prima che i palestinesi abbiano avuto modo di sperimentare la libertà e la dignità che come sappiamo – scaturiscono dall’indipendenza. Pertanto, esclusa la realtà di due Stati, e relegato al dominio della fantasia l’ipotesi del binazionalismo, ecco che avanza minacciosa la prospettiva di un unico Stato arabo in grado di cancellare il nostro sogno sionista. Nel tentativo di arginare una visione così funesta, questa terra – dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo – potrebbe essere governata da una dittatura di fondamentalisti ebraici, caratterizzata dal fanatismo razziale e capace di imporre la sua volontà sia alla maggioranza araba che all’opposizione ebraica. Come si è visto in gran parte delle dittature delle minoranze nell’era contemporanea, anche questa non durerà. Dovrà fare i conti con il boicottaggio internazionale, assistere a bagni di sangue interni, o entrambe le cose, finché non sarà costretta a cedere davanti all’inevitabile: uno Stato arabo dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo … E la soluzione dei due Stati? Molti di noi, che appoggiano questa prospettiva, sostengono che l’attuale conflitto non può trovare soluzione in altro modo … I coloni e i loro sostenitori in patria e all’estero ripetono che questa terra è loro per diritto. E quale sarebbe questo diritto? Non hanno ancora capito che il mondo – tra cui la maggioranza degli Stati arabi – riconosce il loro diritto allo Stato d’Israele all’interno della “linea verde” (linea dell’armistizio che delimita un confine, in funzione tra il 1949 e il 1967, quando Israele di fatto la cancellò e che riguardava le frontiere con la Cisgiordania e la striscia di Gaza) e respinge senza mezzi termini la nostra occupazione dei restanti territori. Che riconosce il diritto dei palestinesi a uno Stato accanto al loro, ma respinge ogni pretesa di ampliamento? Questi coloni, molto simili in questo alla loro controparte estremista tra i palestinesi, sembrano aver dimenticato che i diritti – per quanto divini – se privi di legittimità internazionale devono restare confinati alle sacre scritture, non entrare a far parte del programma di governo … La nostra presenza accanto alla Palestina e nel cuore del mondo arabo è una caratteristica permanente della nostra realtà ed è questa a dover dettare le nostre scelte. Di conseguenza, non prometto nessuna soluzione rapida verso un accordo; nessuna facile attuazione; né una panacea per il giorno dopo. Ma prevedo gravissime conseguenze se non sapremo separare il nostro paese da quello palestinese. Non mi stancherò mai di ripeterlo: ci saranno due Stati se lo vorremo, oppure un unico Stato arabo in mancanza di alternative …Questa nostra piccola casa dovrà essere suddivisa in due appartamenti più piccoli. E che vi sia una buona recinzione fra le due proprietà, per garantire rapporti di buon vicinato … La nostra vita è una vera tragedia di due cause giuste in un conflitto che genera sempre maggiori ingiustizie. Potranno continuare a scontrarsi, infliggendosi ancora più lutti e sofferenze. Oppure potranno cercare di riconciliarsi tramite la separazione e il compromesso».

Parole profetiche, queste, scritte otto anni prima della catastrofe del 7 ottobre, e che rimangono oggi valide come allora; ma nel frattempo quello che è cresciuto non è il desiderio di pace ma un odio inestinguibile che nasce insieme ai bambini israeliani e palestinesi. È un odio che gli viene trasmesso attraverso il latte materno, che fa parte del loro stesso essere. Come diceva appropriatamente Umberto Eco nel suo Costruire il nemico, questi due popoli non hanno bisogno di farlo: il nemico nasce con la sua venuta all’esistenza, da una parte e dall’altra; se lo trovano già bello e confezionato, ed è alimentato quotidianamente dalla propaganda, spesso ingannevole, sulle atrocità commesse da entrambe le parti. Lo scopo della loro vita è l’odio e la distruzione, e purtroppo questo sentimento dilaga anche in occidente, dove assistiamo a imponenti manifestazioni di piazza contro l’uno e contro l’altro, o a favore dell’uno e anche dell’altro. Manifestazioni basate sull’ignoranza, che è sempre la principale responsabile di tutte le tragedie. Le folle, osannanti o inferocite, non sono mai la misura di ciò che è giusto o non lo è; basta ricordare che quando Gesù Cristo fu presentato alla folla urlante insieme ad uno spietato criminale, l’urlo che si levò da essa in risposta a chi si sarebbe dovuto salvare, fu: “Non lui, ma Barabba!”. La folla è cieca, l’odio è cieco e queste due cecità impediscono di vedere come stanno effettivamente le cose. Se entrambe le parti gridano a gran voce: “Questa è la mia terra!”, il loro esser ciechi gli impedirà di vedere ciò che, invece, è sotto gli occhi di tutte le persone ragionevoli ed equilibrate, ovvero il compromesso, che vuol dire io perdo qualcosa e tu perdi qualcosa, ma entrambi guadagniamo un bene incommensurabile: la PACE!

1 commento su “Questa è la mia terra!”

  1. Eccellente, appassionato excursus storico da leggere e rileggere per tentare di comprendere le ragioni del conflitto in corso su una terra che non si capisce a chi appartenga. In proposito azzarderei, in una sintesi estrema che il caro amico Sergio potrebbe condividere, cha la colpa è della Bibbia e del colonialismo inglese.

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