La sirena Partenope nel mito e nella storia di Napoli

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Lapide nella chiesa di San Giovanni Maggiore a Napoli, che menziona Partenope (Fonte: Wikipedia)

Napoli, la città delle meraviglie, è pervasa da leggende e miti che si intrecciano con la sua storia millenaria. Una delle più affascinanti è quella che riguarda la sirena Partenope, figura mitologica che ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura e nell’immaginario di questa città. Ma chi era Partenope e quali sono i luoghi che ancora la ricordano nella Napoli contemporanea? Scopriamo insieme la storia di questa leggendaria creatura e i segreti esposti, in bella vista, tra le strade napoletane.

Dal ponderoso saggio “I miti greci” dello scrittore Robert Graves apprendiamo che Partenope (la vergine) era una delle figlie di Tersicore, musa della danza e della divinità fluviale Achelao. Bellissima e casta fanciulla ebbe in dote dagli dei il dono del bel canto. La giovane, insieme alle sorelle Ligeia e Leucosia, fu scelta da Demetra, dea della Natura, come ancella per la sua amata figlia Persefone. Un giorno, mentre le tre ragazze si erano distratte in una gara di canto, Ade rapì Persefone portandola negli Inferi. Demetra, infuriata per la sbadataggine delle sorelle, le trasformò in orrendi demoni meridiani con testa e busto di donna e zampe e ali di rapace. Colpite dalla maledizione, le sirene si trasferirono in volo su delle lingue di terra pietrosa nel mar Tirreno, cibandosi della carne dei marinai che loro stesse facevano naufragare sugli scogli, attirandoli con il “maliardo canto.” La tradizione individua da sempre quegli isolotti nella baia di Positano, nell’antichità nomati Sirenuse (isole delle sirene). Questo piccolo arcipelago, formato dal “Gallo lungo”, “la Rotonda” e “Strabonia”, fu donato da Federico II di Svevia, nel 1225, al monastero di Positano e da allora è conosciuto con il toponimo di “Li Galli”.

Qui sarebbe ambientato l’episodio dell’Odissea (VIII secolo a.C.), dove l’astuto Ulisse inganna doppiamente le creature marine facendo tappare le orecchie ai suoi marinai e facendosi legare all’albero della nave per ascoltare il loro prodigioso canto senza subirne le atroci conseguenze. Dalle Argonautiche di Apollonio Rodio (III secolo a.C.) apprendiamo che le sirene, infuriate per essere state ingannate da un semplice mortale, si suicidarono. I cadaveri delle tre mostruose sorelle furono trascinati dai flutti in direzioni diverse. Quello di Partenope si andò a spiaggiare, secondo lo storico Strabone (I secolo a.C.), lungo la foce del fiume Sebeto, secondo Virgilio sull’isolotto di Megaride, ove attualmente insiste il Castel dell’Ovo.

Un’altra leggenda (cfr. “Primo Libro dell’Historia della Città e Regno di Napoli” di Giovanni Antonio Summonte) vuole che Partenope altri non fosse che la giovane figlia di Eumelo, re dell’isola di Fera in Tessaglia a capo della spedizione euboica che nel VII secolo a.C. fondò la colonia di Palepoli. Il mito narra di una tremenda tempesta che colpì le imbarcazioni del monarca a largo di Punta Campanella. Molti legni affondarono e la stessa Partenope morì per la violenza dei flutti. Eumelo, folle dal dolore, voleva porre fine alla sua vita lanciandosi in mare. Appena le navi approdarono nel golfo di Napoli però la furia degli elementi si calmò. Un raggio di sole, filtrato attraverso i nembi, illuminò la cima di uno sperone di falesia a picco sulla costa e una colomba bianca, apparsa dal nulla, volò verso l’altura. Il re fece quindi vela verso quel luogo ameno. Tradizione vuole che la tomba della giovane principessa fosse eretta su quella collina allora chiamata Echia (attuale Pizzofalcone), divenendo luogo sacro per i coloni che lì stabilirono il proprio insediamento. Partenope stessa fu scelta come nume tutelare della nuova città. Tale fu l’importanza data all’eroina eponima da comparire nella monetazione di Napoli, sugli stateri e sui didrammi, sin dal VI secolo a.C.

Diotimaeus, un navarca ateniese giunto a Napoli durante la guerra del Peloponneso, venerò Partenope come divinità e istituì, su suggerimento dell’oracolo di Delfi, competizioni ginniche dette Lampadodromia (cfr. Strabone, l.c.) e vari riti sacrificali. Nei primi anni dell’Impero romano, Augusto trasformò questi ludi nel primo agone ginnico d’Italia, i giochi isolimpici. “Napoli ebbe, unica città d’occidente, il privilegio di celebrare i giochi italici in onore di Roma e di Augusto, pari per la quinquennalità ai giochi olimpici e detti perciò isolimpici. E quel privilegio non era tanto dovuto alla personale predilezione dell’imperatore o a ragioni di opportunità politica, quanto piuttosto alla sua intatta grecità: che nel generale decadimento dell’ellenismo della Magna Grecia e della Sicilia, Neapolis, ancora greca di lingua, di istituzioni, di culti e di costume di vita, poteva essere considerata, nella prima età dell’impero, la metropoli dell’ellenismo d’occidente” (Amedeo Maiuri. “Sport e Impianti Sportivi nella Campania Antica”, Roma 1960”).

Gli scavi degli anni ‘50 del secolo scorso, condotti nella zona di Pizzofalcone dal grandissimo archeologo napoletano Mario Napoli, confermarono sul posto la presenza di vestigia ascrivibili alla presenza greca nell’VIII-VII secolo a.C. Grande fu la sorpresa quando, in uno strato ancora più profondo, vennero rinvenute le rovine di edicole votive e tumuli funerari ancora precedenti a quelli greci, appartenenti alla civiltà italica protolatina detta osca. Quindi non è difficile ipotizzare che il culto delle Sirene fosse ancora precedente alla venuta degli elleni. Tante fonti storiche (Strabone, Licofrone, Plinio) riferiscono della presenza fisica di un sepolcro della sirena nella città di Napoli. Nel X secolo, in piena era cristiana, era ancora presente e visibile (secondo un testo coevo bizantino); nei secoli successivi si perse traccia della sua collocazione. Enigma che ha da sempre attirato poeti, storici e semplici curiosi alla ricerca dell’ultima dimora della sirena Partenope. Anche se altrove potrebbe apparire quanto meno bizzarro dibattere per secoli sulla sepoltura di una creatura immaginaria, questo non può evidentemente valere per la città di Napoli. Come scriveva Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle”: «Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno

Potremmo qui citare una infinità di autori che si sono occupati, a vario titolo, del sepolcro della Sirena: Pontano, Sannazzaro, il canonico Celano, Di Giacomo, Croce, Matilde Serao, Doria, Gleijeses, Maiuri, Martin Rua. Due scuole di pensiero principali presiedono all’individuazione della tomba: in altura o lungo la foce del fiume Sebeto. Tra i siti collinari, oltre al già citato monte Echia, l’altura di Caponapoli dove insiste la chiesa di Sant’Aniello e dove sorgevano il convento e la chiesa dei Santi Agrippino e Festo, abbattuti nel Risanamento per far spazio alle Cliniche dette di “Santa Patrizia”, del vecchio Policlinico Universitario.

Per i siti in piano ricordiamo il Castel dell’Ovo, il chiostro del convento di San Gregorio Armeno, la fontana detta Spinacorona (ma dai napoletani conosciuta come “fontana delle zizze”), il sottosuolo immediatamente sotto il golfo mistico del teatro San Carlo, e la chiesa di San Giovanni a mare. Tutti questi luoghi si trovavano, fino al XIV secolo, lungo il corso o immediatamente vicini alla foce dello scomparso fiume Sebeto. Da ricordare che allora la linea costiera della città era molto più arretrata rispetto a quella attuale e il mare lambiva gran parte di essi.

Nella antica basilica paleocristiana di San Giovanni Maggiore, sul fondo dell’abside, troviamo la lapide riprodotta all’inizio di quest’articolo, che fa riferimento alla sirena Partenope nella seguente iscrizione: “OMNIGENUM REX AITOR SCS IAN PARTENOPEM TEGE FAUSTE”, una cui traduzione può essere: “O Sole, generatore di tutti i beni, che passi nel segno del mese di gennaio, proteggi felicemente Partenope”; oppure come rende lo storico Summonte: «Creatore di tutte le cose, Altissimo, proteggi felicemente Partenope».

A seguito del vivo interesse per la tomba di Partenope durante il Seicento, la chiesa fu costretta ad aggiungere una seconda lapide che ne spiegasse il significato:

Ecco una traduzione non letterale dell’iscrizione riprodotta: “Se sei venuto a vedere una vecchia pietra che tu pensi fosse, come si dice, un sepolcro… Non troverai qui Partenope ma Superstizione e ti chiamerò testa vuota. Costantino Magno e sua figlia (Santa Patrizia?) Fecero voto di dedicare questo tempio a Silvestro, primo pontefice cristiano e (San) Prisco consigliò di scolpire questa lapide. Dove tu vedi un vuoto un tempo vi era un Crocifisso.”

Cosa generò tanta acredine nei capi religiosi contro la povera Partenope? La tradizione di immaginare e raffigurare le sirene come bellissime fanciulle con code di pesce al posto delle gambe è iniziata nel Medioevo. Le sirene divennero, nell’immaginario cristiano, spietate maghe in virtù del loro bellissimo aspetto femminile, dei loro canti e della loro arte seduttiva, ma anche ingannatrici, seduttrici, pronte a uccidere dopo aver incantato. Quindi la sirena si trasforma nel simbolo del peccato che porta alla morte. La “cristianissima” Napoli non poteva essere associata a Partenope, un archetipo di lussuria, di tentazione che allontana dalla via maestra della redenzione.

Nel XVI secolo, la Chiesa post conciliare si impegnò nell’impresa sincretica di sostituire, nel cuore dei napoletani, la sirena Partenope con una vergine cristiana. La figura di una Santa, in particolare, fu scelta per apportare una rielaborazione cultuale significativa: Santa Patrizia. Abbiamo visto precedentemente come molti luoghi dedicati alla Sirena fanno riferimento alla santa del Ponto (il Monastero di San Gregorio armeno, dove si conserva il corpo della santa; Caponapoli, dove in età preromana si venerava un cenotafio della Sirena; il convento di Santa Patrizia; il Castel dell’Ovo, dove morì Partenope, ma naufragò anche la nave della Santa, nipote dell’imperatore d’Oriente.); la cosa non è casuale ma conseguenza di un’opera agiografica plasmata sul modello dei miti della sirena Partenope dal vescovo Paolo Regio nel 1573. Fu Regio ad attribuire nobili origini a Patrizia, facendola discendere da sant’Elena e dall’imperatore “cristiano” Costantino. Sempre il vescovo indicò i luoghi del culto pagano di Partenope per rimodellarli come un vestito su Patrizia. Questo ritocco agiografico fu commissionato dalle avide monache del convento di Santa Patrizia, con l’intento di promuovere la Santa al ruolo di compatrona della città e di amplificarne la fama miracolosa. Secondo la ricercatrice universitaria Paola Moro tale operazione di sincretismo “è da considerarsi un vero e proprio tentativo di appropriazione dell’immaginario pagano”, parzialmente riuscito, dato che ancora oggi santa Patrizia è una delle compatrone più influenti di Napoli.

In conclusione, il mito affascinante di Partenope, la sirena dalle radici antiche che si intrecciano con le leggende greche e romane, continua a esercitare un richiamo misterioso. La sua metamorfosi nel corso dei secoli, da donna-uccello venerata nella Grecia antica a seducente figura di tentazione nel Medioevo, riflette la mutevolezza delle culture e delle interpretazioni umane. Oggi, Partenope persiste come un simbolo intramontabile di dualità: un ponte tra mondi, un’entità che abbraccia la fragilità umana e la voglia di conoscenza. La sirena Partenope, con la sua voce avvolgente e il suo richiamo seducente, continua a vagare nei recessi della nostra immaginazione, incanalando il fascino eterno del mistero e della bellezza enigmatica.

2 commenti su “La sirena Partenope nel mito e nella storia di Napoli”

  1. Non posso che essere grato ad Antonio Nacarlo per l’interessantissimo saggio sulla storia di Napoli e di Partenope. Io ho sempre amato questa città, ma adesso sono in grado di farlo con maggiore consapevolezza, e sono rimasto affascinato dell’erudizione dell’autore, che mi ha consentito uno sguardo retrospettivo su aspetti della nostra Napoli che ignoravo del tutto. Complimenti vivissimi. Sergio Pollina.

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie Sergio, non posso che essere fiero di questo suo commento. Non ho il piacere di conoscerla personalmente ma nutro per lei grande rispetto e stima. Seguo con interesse e sposo il progetto “zonagrigia” apprezzando il lavoro di tutti i redattori. I suoi articoli in particolare, sono per me sempre fonte di profonda riflessione personale.
      Infinite grazie

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