Piove, governo ladro!

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La politica non è una professione, né un lavoro, né un impiego, tanto è vero che per esercitarla non è necessario un titolo di studio, una qualifica, una specializzazione, dell’esperienza. Non è niente di tutto questo; la politica è una gravosa assunzione di responsabilità: quella di gestire la vita quotidiana di milioni di persone, garantendo a ciascuna d’esse un tetto, un lavoro, di che nutrirsi, di ricevere assistenza medica di qualità, e di non subire alcuna discriminazione basata su sesso, razza, etnìa, cittadinanza, fede religiosa (o assenza di fede), idee politiche, orientamento sessuale e ruolo nella società.

Desideriamo sottolinearlo, ripetendolo, la politica non è una professione, e lo descrive appropriatamente l’aggettivo “politicante” che sta a indicare proprio, e in senso dispregiativo, chi la pratica come se lo fosse.

Volendo spingerci molto più in là potremmo fare un paragone con l’impegno genitoriale. Due persone, ad un tratto, spesso dopo averlo programmato, si trovano ad avere tra le mani (o tra le braccia) un piccolo essere vivente. Crescerlo, amarlo, averne cura, proteggerlo, educarlo non sarà mai considerata dai suoi genitori una professione, ma un impegno e una grande responsabilità.

Riusciamo a intravedere — anche alla lontana — nella nostra pletorica classe politica personaggi il cui comportamento, stile di vita, parole e azioni ci consentano di attribuire loro, a pieno titolo, l’attributo di “uomo politico” nel senso nobile della parola? L’amara e scoraggiante risposta è, purtroppo, un sonoro NO! E ad avvalorare questa poco edificante negazione, lo sosteniamo con le parole di Antonio Gramsci, che il 28 luglio 1918, nella rubrica “Sotto la Mole” della pagina torinese dell’Avanti scrisse: «L’Italia è il paese dove si è sempre verificato questo fenomeno curioso: gli uomini politici, arrivando al potere, hanno immediatamente rinnegato le idee e i programmi d’azione propugnati da semplici cittadini … Perché questo fenomeno? … In Italia non esistono partiti di governo organizzati nazionalmente, e ciò significa che in Italia non esiste una borghesia nazionale che abbia interessi uguali e diffusi: esistono consorterie, cricche, clientele locali che esplicano un’attività conservatrice non dell’interesse nazionale borghese, ma di interessi particolari di clientele locali affaristiche». A questo punto, anche se purtroppo non è in alcun modo possibile, ci piacerebbe veramente conoscere il pensiero che Gramsci avrebbe espresso sul “ventennio” dell’uomo politico che più di chiunque altro ha influito sul carattere nazionale degli italiani: Silvio Berlusconi, del cui lunghissimo regno subiamo e subiremo per ancora chissà quanto tempo, le nefaste conseguenze.

Prima d’essere tacciato di becero populismo, nel ricordo di una famosa espressione che costituiva il titolo di un indimenticabile saggio del già citato Gramsci, ovvero Piove, governo ladro! secondo la quale il cittadino comune attribuisce tutti i mali del suo vivere quotidiano a chi ci governa, desidererei precisare che qui non si intende assolvere nessuno di noi dalle sue responsabilità. Difatti, come asserisce Norberto Bobbio, a cui facciamo spesso riferimento, «il fondamento di una buona repubblica, prima ancora delle buone leggi, è la virtù di cittadini “virtuosamente democratici”», che fa eco alle parole di Benedetto Croce, secondo il quale è necessario «contrapporre alla politica la forza non politica con la quale la buona politica deve sempre fare i conti». [Benedetto Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952, pp. 159-160]. Questo riferimento a Croce, richiama alla mia mente un’intervista di Corrado Stajano del luglio 1972 a Ferruccio Parri, al quale, a un certo punto del colloquio, chiese quale fosse stata la sua più profonda delusione. Rispose: «Mah, il popolo italiano, ecco. È la cosa che mi pesa di più. Man mano che mi sono fatto una conoscenza più profonda del popolo italiano, ho toccato i suoi aspetti di scarsa educazione civile e politica. Mi riferisco alla parte prevalente del Paese, non a tutto il paese». Da ciò deriva un amaro commento di Gramsci che, parlando dei suoi conterranei, scrisse: «Gli italiani hanno così poca coscienza di ciò che veramente è la libertà, da permettere che una ristretta categoria di persone, per lo più fior di bricconi e schiuma di fogna, sia fuori del diritto comune e possa sottrarsi a quelle sanzioni punitive che la coscienza universale crede giustificate contro tutti i comuni malfattori». (Op. cit., p. 58)

È pertanto ovvio, da quanto precede, che un buon governo ha bisogno di buoni cittadini, e viceversa. È tristemente noto, invece, che il nostro paese è solito primeggiare nelle classifiche dei valori negativi rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei. E sebbene il fatto che di recente tre cittadini siano morti mentre attraversavano sulle strisce sia dovuto alla negligenza di chi aveva l’obbligo di renderle pienamente visibili, e anche all’incuria di molti che disattendono le regole del traffico e del buon senso, ciò non modifica la maggiore responsabilità che incombe su chi, in cambio del potere, ha promesso ai cittadini/elettori di aver cura di loro, provvedendo pensioni adeguate, una sanità d’eccellenza, la manutenzione delle strade e di tutte le vie di comunicazione, la sicurezza dalla criminalità che spadroneggia, e così via. Purtroppo, e in tempi recenti, in Italia sono sorti politici che, oltre a queste cose indispensabili per il buon vivere, ne hanno aggiunte altre che con queste non hanno nulla a che fare, ma che hanno l’effetto di vellicare le peggiori pulsioni che esistono in quasi tutti noi, e di suscitare, quindi, entusiasmi e consensi. Questi “politici” sono estremamente lontani dall’avere intrapreso questa “carriera” per far del bene alla Nazione, ma solo a sé stessi, e quindi devono battersi strenuamente per mettere a tacere, e con ogni mezzo, quelli che non la pensano come loro. Che la politica sia stata sempre contrapposizione divisiva è fatto ben noto. È, però, anche ben noto ciò che disse un galileo di duemila anni fa, e che è pienamente valido ancora oggi: «Ogni regno in sé diviso va in rovina. Ogni città o casa in sé divisa non potrà reggere» (Matt. 12:25. Nuovo Testamento Interlineare. Ed. S. Paolo). Parole che, quasi diciotto secoli più tardi, furono citate dal senatore Abramo Lincoln, non ancora presidente degli Stati Uniti, alla Convention Repubblicana di Springfield, Illinois, dove, parafrasando le parole di Cristo, disse — a proposito delle forti tensioni che laceravano la nazione — che “una casa divisa non può stare in piedi”.

Avendo appena fatto riferimento alle Sacre Scritture, ci sembra conseguente dare inizio a un’attenta disamina della nostra classe politica con un personaggio del tutto paradigmatico all’argomento, dato che parliamo dell’unico rappresentante del ceto politico nostrano aduso ad esibire, o meglio brandire, Rosario e Crocefisso. Sì, si è capito che stiamo parlando di Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio e ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Non volendo attribuirci meriti non nostri nel parlare di questo personaggio e dei suoi trascorsi, ci affidiamo alla penna di Michele Serra che, in una sua Amaca del 19 ottobre scorso ha scritto: «In questo clima di tregenda, la notizia che la Lega del Salvini convoca una manifestazione “in difesa dei valori occidentali” mette quasi di buon umore. Tra i valori occidentali e il Salvini c’è lo stesso rapporto che collega un pesce alla bicicletta. Non che negli esordi bossiani la cultura democratica fosse in primo piano. A partire dal linguaggio: il Bossi che vantava la sua armata di “trecentomila doppiette”, e dava del terrone ai nati sotto il Po, e del bingo-bongo ai nati sotto la Sicilia, già aveva tracciato il solco, tra gli applausi entusiasti dei suoi. Ma non c’è dubbio che il Salvini abbia poi ben dissodato il terreno e perfezionato il modello. Dall’ostensione del rosario nei comizi, alla cultura da rastrellamento dei suoi social, non si è fatto mancare nulla. Per lui l’Occidente è una curva da stadio, la Curva Ovest, eccezion fatta per l’innamoramento moscovita, che almeno geograficamente parrebbe molto poco occidentale. Il valore fondante dell’Occidente è il concetto di tolleranza (che significa, tradotto in prassi, divisione dei poteri, rispetto delle minoranze, diritti umani al primo posto). Premesso che, a un esame di tolleranza, ognuno di noi faticherebbe ad arrivare a una risicata sufficienza, quale voto, da uno a dieci, prenderebbe il Salvini? E quale voto la Lega, che è il risvolto trumpista dell’Europa, elmo cornuto e porto d’armi in primo piano? Basti dire che al suo confronto Giorgia Meloni, che è pur sempre la leader dei post-fascisti italiani (il prefisso post vada inteso come un atto di fiducia), sembra Bertrand Russell. Salvini, rispetto all’Ovest, è così oltre che è già l’Est».

Su Salvini, così ben descritto da Serra, non ci sarebbe da aggiungere molto altro, se non che al giornalista è sfuggito un aggettivo che gli si attaglia benissimo: opportunista. È di pochissimi giorni fa la vicenda tristissima che ha visto trucidare due cittadini svedesi in Belgio da parte di un terrorista islamico. Ebbene, come si poteva lucrare su quell’efferato e crudele episodio? Salvini, l’opportunista, non ha perso tempo né l’occasione: ha voluto ricordare a tutti, pubblicamente, che il terrorista in questione era sbarcato ben dodici anni prima (una vita intera!) nell’isoletta di Lampedusa con un barcone di poveri disgraziati. Da quel momento di lui si perdono le tracce: va in giro per tutta Europa, si radicalizza, aderisce a gruppi eversivi e così via. Ma per Salvini ciò che conta è che lo abbiano fatto sbarcare a Lampedusa, invece di ributtarlo in mare insieme a tutti gli altri, come lui avrebbe voluto. E poiché l’agire di Salvini, nella sua qualità di ministro dell’Interno è tuttora oggetto di più procedimenti giudiziari a suo carico, uno riguardante la “Gregoretti”, nave della marina militare con 131 migranti a bordo per “sequestro di persona aggravato dal ruolo di pubblico ufficiale e dalla presenza di minori a bordo”, e l’altro riguardante il caso Open Arms, anche qui con l’accusa di “plurimo sequestro di persona”, non è parso vero, alla povera “vittima”, di tuonare contro chi (la sinistra) fece allora sbarcare a Lampedusa Abdesalem, che ben dodici anni dopo si è macchiato di un atroce reato — che con il suo sbarco in Italia non ha nulla a che fare —, mentre lui, Salvini, è ingiustamente sottoposto a processo per aver “protetto e difeso la sua Patria”. Se non stessimo parlando di argomenti drammatici potremmo ben attribuire alla sua invettiva la famosissima frase di Bakunin, “Una risata ti seppellirà”.

Quando parliamo delle “gesta” di Salvini e dei suoi associati al governo, parliamo di gente che sospettiamo non conosca l’abbiccì del diritto e, seguendo il consiglio di Gustavo Zagrebelsky su la Repubblica del 14 settembre 2019, in un articolo intitolato “Non cancelliamo il diritto ai diritti”, invitiamo chi può e vuole farlo a soppesare con attenzione questa espressione particolarmente densa di significato, usata per la prima volta da Anna Harendt, e che è entrata nel nostro lessico politico e giuridico soprattutto a opera di Stefano Rodotà che ne ha fatto il titolo di un suo importante libro del 2013, Il diritto di avere diritti (Editori Laterza, 2013).

Per il momento chiudiamo qui, e ci onoriamo di farlo con l’espressione di Gramsci che dà il titolo a questo scritto: Piove, governo ladro!

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