Scatole cinesi – 4^ parte

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‘Se sotto la guida di Alfredo de Silvestri e dei suoi soci gli investimenti del clan andavano a gonfie vele, il boss non aveva motivo di far uccidere il commercialista: quella pista era quindi da escludere’

Mentre seguiva il filo di questo ragionamento Iezzo sentì bussare alla porta del suo ufficio.

“Sì?”

“Si può?” chiese una voce di donna affacciandosi sulla soglia della stanza.

“Prego.”

“Pasqualino!”

“Franca! Sono contento di vederti” disse Iezzo alzandosi per andare incontro all’amica.

“Sono due giorni che sei sparito dalla circolazione e, nell’ordine, ho pensato: l’hanno rapito gli alieni; è rimasto chiuso nel bagno di casa; è fuggito con una donna; sarà in ufficio a lavorare. Ti confesso che sono un po’ delusa di trovarti qui.”

“Avresti preferito che mi avessero rapito gli alieni? E poi chi ti restava da prendere in giro? O che fossi rimasto intrappolato nel bagno per poter ridere di me?”

“In fuga con una donna non rientra neanche fra le possibilità, o sbaglio?”

“Se fossi scappato in compagnia di una donna, tu saresti stata la prima e l’unica a saperlo, non credi?”

La risposta, fra l’allusivo e il sibillino, riuscì, per la prima volta in assoluto, a spiazzare Franca, lasciandola per qualche secondo senza parole.

Che voleva dire il suo Pasqualino: che l’avrebbe informata in quanto sua migliore amica, o che avrebbe scelto lei per una fuga romantica?

A ridestarla da quell’attimo di smarrimento arrivò il delicato ganascino con cui il commissario le pizzicò la guancia.

“Comunque ci avrei scommesso che ti avrei trovato in commissariato” disse Franca riacquistando la sua abituale verve.

“E se riesci a staccarti dalle tue carte e mi offri una pizza, ti dico qualcosa che ancora non sai”.

Mezz’ora dopo Pasquale e Franca erano seduti in una pizzeria sul lungomare, davanti a uno specchio d’acqua illuminato dalla luna piena.

“C’era qualcosa d’insolito sul cuoio capelluto di Alfredo de Silvestri, proprio all’altezza della nuca, dove è stato colpito mortalmente – disse Franca -. All’inizio non ci avevo fatto caso perché era nascosto sotto il sangue raggrumito. Poi quando ho lavato la ferita e rimosso i residui ematici, è venuto fuori. Tu sai quanto io sia curiosa, per cui, anche se poteva apparire come un dettaglio insignificante, dovevo andare a fondo: indovina cosa ho scoperto, come dici tu?”

“Sai, ero proprio contento di essere qui con te a godere di questo incantevole chiaro di luna, davanti alla migliore pizza della città, bevendo due birre ghiacciate, e invece … non potevi proprio aspettare che finissimo di mangiare prima di addentrarti nella descrizione dei dettagli dell’autopsia? Non ti sembrava vero di poter evocare il sangue, proprio mentre mangiamo una pizza al pomodoro, eh? Dai, Franca, pare che tu lo faccia apposta!”

Più delle parole, fu l’espressione del viso di Pasquale a suscitare la risata di Franca: quel sorriso avrebbe riconciliato con se stesso anche il più burbero dei misantropi in lite con la propria immagine riflessa dallo specchio.

E Iezzo finì con il sorridere anche lui.

“Va bene – disse il commissario – ora che mi hai rovinato la pizza, e che ti sei divertita alle mie spalle, mi dici cosa hai scoperto?”

“Sulla pelle che ricopriva la nuca di Alfredo de Silvestri, proprio all’altezza del bordo superiore della ferita, ho notato qualcosa d’insolito, come se l’oggetto con cui è stato colpito avesse lasciato impresso un segno”

“Un’unica percossa, vibrata con una tale violenza da ucciderti sul colpo, lascia sicuramente il segno” sottolineò ironico Iezzo per punzecchiare l’amica che gli aveva tolto l’appetito raccontandogli i macabri dettagli dell’esame autoptico.

“Scemo – ribatté piccata Franca – ho il sospetto che si tratti di segni dell’alfabeto, lettere insomma; il che confermerebbe la mia supposizione che il de Silvestri sia stato colpito con la base di una statuetta su cui, probabilmente, c’era un’iscrizione in rilievo.”

Riaccompagnata Franca, che ancora una volta aveva sperato invano in un diverso epilogo della serata, tornando a casa Pasquale ripensò a quanto gli aveva riferito la sua amica: l’ipotesi lo convinceva, ma purtroppo dell’arma del delitto non c’era traccia.

La ricostruzione del quadro d’insieme appariva più complessa del solito: la vittima, era un donnaiolo, che curava gli affari sporchi di un clan malavitoso.

Ad averlo ucciso poteva essere stato un marito tradito o una donna abbandonata, a voler seguire la pista del delitto passionale.

Oppure l’omicidio era maturato nell’ambiente della criminalità organizzata.

Ma in questo caso gli avrebbero sparato, con un’esecuzione in piena regola, anche per dare il messaggio che non erano tollerati sgarri.

E se i due moventi si fondevano fra loro?

Se cioè Alfredo aveva una relazione con la donna di un criminale e quest’ultimo aveva deciso di vendicarsi per l’affronto e fargliela pagare?

In quel caso il de Silvestri doveva essere eliminato in modo che il suo assassinio non fosse riconducibile a un appartenente al clan perché, senza il permesso dell’anziano boss Peppino Sinagra, nessuno poteva torcere un capello al commercialista che curava gli affari della famiglia e se qualcuno fra i suoi uomini aveva la moglie zoccola, doveva tenersi le corna, ma de Silvestri non si toccava.

Così, inscenare un delitto al di fuori dei tradizionali canoni malavitosi, poteva essere la soluzione escogitata dal cornuto di turno per vendicarsi dell’offesa subita, senza dover incorrere nella punizione del boss, che di sicuro sarebbe stata una condanna a morte senza appello!

Iezzo ebbe la sconfortante sensazione che il filo dei suoi pensieri lo conducesse al cospetto di quelle scatole cinesi, che una volta aperte rivelano al loro interno solo la presenza di altre scatole vuote.

Assorto nei suoi ragionamenti, varcò soprappensiero la soglia del palazzo e non si accorse di Ernesto che stava fumando affacciato alla finestra della casa del custode.

“Buonasera commissario” disse il ragazzo.

“Ciao Ernesto, ancora sveglio a quest’ora?”

“Un’ultima sigaretta prima di andare a dormire”

“Pessimo vizio, ma sono il meno indicato per ricordartelo.”

“E allora non dire niente e fatti i cazzi tuoi.”

 “Buonanotte, Ernesto.”

“Vaffanculo, commissario.”

Con quel saluto, ormai consueto, Ernesto gli ricordava che anche quella giornata stava volgendo al termine.

Era sveglio dalle sei e mentre sorseggiava il secondo caffè della giornata non poté fare a meno di pensare agli ultimi dettagli rivelati dall’autopsia eseguita da Franca: quei segni impressi sulla pelle del cranio di Alfredo de Silvestri e il rapporto sessuale consumato dalla vittima poco prima di essere ucciso.

Erano passati già quattro giorni da quando il commercialista era stato ucciso e non aveva un’idea precisa né del movente, né dell’arma del delitto.

‘Complimenti Iezzo’ pensò sconsolato il commissario ‘con l’età stai cominciando a perdere colpi’.

La vibrazione del cellulare gli annunciò la chiamata di Franzese che, ne era certo, gli avrebbe rovinato la prima parte della giornata.

“Buongiorno commissario, sono Franzese, vi disturbo?”

“Non sono ancora le sette di mattina e già senti il bisogno di chiamarmi: ma ti fossi preso una cotta per me, ispettore? Che poi non ci sarebbe niente di male. Potrei capirti sai, non sono da buttare, sono il tuo capo, lavoriamo a stretto contatto molte ore al giorno: ci sta che può nascere del tenero fra colleghi! E poi lo sai che sono di vedute aperte.”

Sbigottito, per una naturale incapacità di cogliere al volo l’ironia, l’ispettore cominciò a balbettare fonemi incomprensibili, più simili a lamenti che a parole.

Convinto che con Franzese la sua vena sarcastica rischiasse il dissanguamento, Iezzo dovette chiarirgli che stava scherzando.

“Commissario mi avete fatto prendere un colpo; ho pensato: vuoi vedere che ho detto o fatto qualcosa che il commissario ha potuto equivocare? e mi sarebbe dispiaciuto. Chi glielo diceva a mia moglie che il commissario Iezzo pensava che fossi gay!”

“Peppino, – tagliò corto un esasperato Iezzo – perché mi hai chiamato?”

“Giusto commissario, mi avete fatto distrarre ed era una cosa importante”

“Era importante: ora non lo è più?”

“No, no, è ancora importante”

Pasquale ci era ricaduto, era più forte di lui: Franzese sembrava stuzzicare la sua predisposizione al sarcasmo.

“Stanotte Antonio Della Monica, il socio del de Silvestri, è stato ricoverato al policlinico in seguito a un incidente d’auto: è in coma!”

I neon degli ospedali suscitavano nel commissario sempre la stessa sensazione d’ansia, nonostante l’abitudine a frequentare quei luoghi di dolore e di speranza.

L’ispettore l’aveva preceduto e già stava annotando chissà quali informazioni sul suo inseparabile taccuino.

La malcapitata di turno era una bella donna, col viso stravolto, che sembrava rispondere meccanicamente alle incalzanti domande di Franzese.

A salvare la poverina, dal pressing asfissiante dell’ispettore, giunsero di lì a poco Gianluca Pisanti e Donatella Aspergi, l’altro socio e la vedova di Alfredo de Silvestri, che strinsero la donna in un abbraccio.

Tagliato fuori da quell’effusione d’affetto, solo allora Franzese si accorse della presenza di Iezzo che, poco distante, osservava la scena.

Deferente, l’ispettore si avvicinò al suo superiore pronto a sciorinare le informazioni trascritte sul block notes.

Rassegnato, Iezzo si predispose all’ascolto e venne a sapere che la donna si chiamava Laura Somma, era la moglie di Antonio Della Monica, aveva quarantacinque anni ed era a capo di uno studio di architetti molto noto in città.

Al momento dell’incidente, Della Monica era alla guida dell’auto della moglie.

Dalla pattuglia della polizia stradale, che aveva eseguito i primi rilievi sul luogo dell’incidente, Franzese aveva appreso che l’auto era stata tamponata a forte velocità – non c’erano tracce di frenata sull’asfalto – ed era finita nella scarpata dopo aver sfondato il muretto di cinta.

L’uomo al volante era rimasto ancorato al sedile di guida dalla cintura di sicurezza, ma l’auto si era ribaltata più volte prima di finire la sua corsa in fondo al dirupo, a decine di metri di distanza dalla sede stradale: quasi un miracolo che non fosse morto sul colpo.

Era in coma e i medici non si pronunciavano su quante possibilità avesse di potersi riprendere.

Sebbene fosse questo il succo della relazione di Franzese, Iezzo dovette pazientare per un buon quarto d’ora e ascoltare per intero il prolisso racconto del sottoposto, senza commettere l’errore di interromperlo, per non sentirlo ricominciare daccapo.

“Peppino, per cortesia, non sono ancora le otto, vedi un po’ se le infermiere hanno fatto il caffè e se te ne offrono un paio di tazzine”

“Vado subito, dottore, ma se l’hanno fatto ne chiedo una sola di tazzina di caffè, perché io già l’ho preso alla macchinetta poco dopo il mio arrivo in ospedale: comunque grazie per aver pensato anche a me, gentilissimo”

“Se c’è, portamene due lo stesso”

“Commissario, troppo caffè vi fa male: una tazzina non basta? Due insieme ve ne dovete prendere?”

“Franzese, se non è di troppo disturbo, sempre che nel frattempo non sia già finito, di tazzine fattene dare due, per piacere”

“Agli ordini Commissario, come comandate, mi faccio dare un bel caffè doppio, in una sola tazza.”

“Peppino, stavo pensando che le infermiere, in quest’ospedale, il caffè lo devono fare proprio bello carico.”

“E come fate a saperlo se ancora non l’avete bevuto?”

“Appunto, io non l’ho ancora neanche assaggiato, ma al solo pensiero di berlo già sono nervoso”

“Uh, commissario, e come mai?”

“Franzese, abbi pietà, vedi se riesci a farmi avere due, dico due, tazzine con del bel caffè caldo: vai, e non aggiungere altro”

Mentre l’ispettore si allontanava perplesso, Pasquale pensò che in un’altra vita dovesse aver fatto incazzare qualcuno di brutto, e in questa, per una sorta di contrappasso dantesco, gli era toccato dover sopportare Franzese per uscire in pari con i conti.

Nel presentarsi e porgere uno dei due caffè a Laura Somma, Iezzo ebbe modo di costatare che, da vicino, la donna era ancora più bella di quanto avesse già notato osservandola da lontano.

Pur nascoste dal soprabito, s’intuivano le forme generose del fisico, ma ciò che più colpiva era la perfetta simmetria del volto su cui spiccavano due occhi di un blu intenso: Pasquale pensò che non sarebbe stato difficile smarrirsi in quello sguardo.

“Signora Somma, lei ha riferito all’ispettore Franzese che suo marito era andato a ritirare la sua auto dal carrozziere perché un impegno di lavoro l’aveva trattenuta all’ultimo momento.”

“Sì, commissario, un cliente si è presentato allo studio con un problema serio che doveva essere risolto subito, per cui ho telefonato ad Antonio pregandolo di andare a ritirare l’auto che era stata riparata. L’ho comprata appena il mese scorso e dopo qualche giorno qualcuno mi ha rigato il cofano a bella posta e quindi l’ho portata in carrozzeria. Ieri sera dovevo passare a ritirarla perché era pronta, ma, come le ho detto, sono stata trattenuta da un impegno improvviso. Commissario nell’auto dovevo esserci io e mi sento responsabile per l’incidente occorso a mio marito”

“Non si dia la colpa di ciò che è successo – disse Iezzo provando a consolare la donna dagli occhi blu –; non possiamo immaginare cosa ci riservi il futuro, bello o brutto che sia: l’imprevedibilità è parte della nostra vita”

Le parole pronunciate da Iezzo distolsero Laura dai cupi pensieri in cui era assorta e, per un attimo, alleviarono quell’angoscia che la stava consumando.

Lo sguardo riconoscente che rivolse a Pasquale era così naturalmente seducente che l’uomo non poté fare a meno di tornare col pensiero al gioco di sguardi che annunciava l’imminenza di ogni amplesso con sua moglie.

La sua ex moglie.

Era stata dura accettare la volontà della donna di separarsi definitivamente. Si stavano lasciando perché non trovavano più le parole per comunicare; forse non c’erano mai state, ma l’attrazione reciproca li aveva uniti quasi per istinto e il sesso, sempre appagante, aveva finito con il tenerli insieme così a lungo. I suoi silenzi, col tempo, l’avevano resa triste, il desiderio era scemato e la loro intesa sessuale ne aveva risentito fino ad affievolirsi sempre più. Venuto meno il cemento dell’attrazione fisica, il rapporto si era consumato fino a esaurirsi del tutto. E quando lei l’aveva lasciato, lui si era chiuso in un silenzio che gridava al mondo la sua ammissione di colpa. Pasquale ripensò a quando, una volta, qualcuno gli aveva detto che le storie d’amore muoiono per afonìa: peccato che l’avvertimento fosse arrivato troppo tardi!

Continua …

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