Scatole cinesi – 3^ parte

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Steso sul letto, Pasquale Iezzo provò a ricostruire mentalmente il puzzle di quell’indagine, di cui Enzo gli aveva fornito un tassello d’eccezione.

Il racconto dell’amico era partito da lontano, dal 1980.

All’epoca lo studio di Nicola Aspergi, il padre di Donatella, gestiva la contabilità di piccoli esercenti, di alcune aziende agricole dell’hinterland e di un paio d’imprese edili: era un professionista benestante, ma non ricco. La situazione cambiò dopo il terremoto del novembre di quell’anno. Nel gennaio del 1981 il geometra Gennaro Basile, titolare dell’Aurora Costruzioni Srl, di cui Aspergi curava gli interessi, si presentò allo studio del commercialista in compagnia di Giuseppe Sinagra, l’eminenza grigia di uno dei più potenti clan malavitosi della città. Al cospetto di don Peppino Sinagra, Nicola Aspergi capì che il suo lavoro e la sua vita erano di fronte a un bivio. E non ebbe dubbi sulla strada da scegliere. Di lì a poco l’Aurora Costruzioni cominciò ad aggiudicarsi gli appalti più redditizi della ricostruzione. Un fiume di denaro affluì nelle casse della società e anche il conto del commercialista cominciò a crescere. Il dottor Aspergi non si limitò a svolgere la sua attività professionale in quel cono d’ombra in cui le organizzazioni criminali condizionano le dinamiche imprenditoriali, ma seppe fare di più. Individuò le aziende in difficoltà finanziaria a causa del sisma e, con i soldi del clan, le rilevò per avviare il ciclo del riciclaggio; così, nel giro di poco tempo, i proventi delle attività illecite del suo principale cliente diventavano spendibili. Riciclato il denaro, le aziende chiudevano e il commercialista provvedeva ad assorbirne altre, incurante della perdita dei posti di lavoro. Il refrain si era ripetuto inalterato anche dopo la morte del dottor Nicola: era questa l’eredità lasciata ad Alfredo de Silvestri dal padre di Donatella.

Spegnendo la luce sul comodino, Iezzo pensò che fosse una dritta importante quella che gli aveva fornito il suo amico Enzo, all’epoca giovane ragioniere praticante dello studio Aspergi.

Alle otto meno un quarto della mattina successiva, Iezzo era già seduto a un tavolino del bar di fronte al palazzo di giustizia e stava aspettando il dottor Luigi Ametrano, il magistrato che seguiva le indagini dell’omicidio de Silvestri.

I due si conoscevano da tempo e li legava una reciproca stima professionale, consolidatasi in anni d’indagini condotte congiuntamente.

Solo il confronto fra i due caratteri strideva: riservato e schivo il commissario, estroverso ed espansivo il giudice.

“Commissario carissimo” esordì il magistrato accomodandosi accanto a Iezzo.

“Giudice, la ringrazio per avermi concesso quest’appuntamento così presto, ma avevo urgenza di parlarle”

“E se facessimo prima colazione, visto che siamo già al bar? Che ne dice? Cappuccino e cornetto? Qui hanno un cornetto ischitano, crema e amarena, che è una delizia per il palato” disse Ametrano avvicinandosi all’orecchio di Iezzo, quasi a voler condividere un segreto.

Gustata la prelibatezza consigliata dal magistrato, il commissario fece il punto sulle indagini e, mantenendo l’anonimato della fonte, rivelò il lato oscuro degli affari del commercialista ammazzato.

“Per cui – concluse il commissario – potrà ben comprendere che ho bisogno di accedere all’elenco dei clienti e alle scritture contabili delle società che hanno la sede legale negli studi di Via Verdi 19, di Milano e di Ginevra, e agli atti notarili della loro costituzione.”

“Nient’altro?” disse ironicamente Ametrano, quasi a voler sottolineare la complessità della richiesta appena ricevuta.

“Sì, giudice, c’è un’altra piccola cosa: devo poter esaminare i movimenti sui conti bancari dei tre soci dello studio”

“Non le garantisco di poter esaudire rapidamente le sue richieste, ma vedrò cosa posso fare” rispose il magistrato salutando il commissario e dirigendosi verso l’ingresso della Procura.

La pista fiutata da Iezzo lo convinceva.

Prima di entrare in magistratura, Ametrano era stato anche lui in polizia, quel tanto che basta per restare “sbirro” dentro: avrebbe firmato subito il mandato con tutte le autorizzazioni richieste.

Nel frattempo Iezzo aveva detto a Franzese di raggiungerlo nel centro fitness frequentato da Alfredo de Silvestri.

La seconda visita della polizia, in meno di ventiquattr’ore, mise in agitazione Marco Colucci.

Il titolare della palestra aveva qualche precedente per traffico di sostanze anabolizzanti –steroidi – e in passato aveva subito un processo, in cui era stato assolto per insufficienza di prove, per induzione alla prostituzione: insomma, la compagnia delle forze dell’ordine non gli piaceva.

“Signor Colucci buongiorno, sono il commissario Pasquale Iezzo – disse il poliziotto presentandosi – Stiamo indagando sull’omicidio del dottor de Silvestri, come le ha già detto ieri l’ispettore Franzese e avrei bisogno di farle qualche domanda.”

“Ancora – rispose risentito Colucci – ieri l’ispettore qui presente è stato più di un’ora a farmi domande su Alfredo e tutto quello che avevo da dire l’ho detto.”

Per un attimo Iezzo provò, come dire, quasi una sorta di commiserazione per quell’uomo, pensando al supplizio rappresentato da un’ora di colloquio ininterrotto con Franzese.

Ma fu giusto un istante, poi sibilò “Vorrà dire che la convocherò in commissariato per ciò che ho da chiederle: a presto Colucci”.

E gli voltò le spalle per guadagnare l’uscita.

“Un attimo, commissario, mi avete frainteso – disse un più conciliante Colucci -. Non so che altro dirvi sulla morte del dottor de Silvestri, ma se avete ancora domande da fare approfittiamo che siete qui e fatele.”

L’idea di rimettere piede in un posto di polizia, visti i suoi precedenti, non lo entusiasmava; e se voleva liberarsi di quel commissario, che aveva tutta l’aria di un segugio abituato a prendere le sue prede per stanchezza, era meglio rispondere alle domande, senza ulteriori indugi.

Il titolare del centro fitness rivelò così che il suo amico Alfredo era uno che ci sapeva fare con le donne e che non perdeva mai l’occasione per una nuova conquista.

La palestra era il suo territorio di caccia preferito, grazie alla ruffiana complicità che lo stesso Marco gli garantiva.

Non di rado capitava che il de Silvestri consumasse i suoi amplessi in un locale appartato del centro; insomma era un tombeur de femme senza scrupoli morali.

“Anche se ultimamente – osservò Marco, come se lo stesse notando solo in quel momento – Alfredo non sembrava più propenso a cogliere l’attimo e avventurarsi in nuove relazioni.”

‘Avrà avuto bisogno di ricaricare le batterie’, pensò ironicamente Iezzo mentre usciva dalla palestra e rifletté sul fatto che, dopo l’immagine del professionista integerrimo, era andata in frantumi anche quella del marito leale e fedele.

Era ancora in commissariato quando, a tarda sera, ricevette la telefonata del giudice Ametrano: aveva firmato le autorizzazioni richieste per procedere all’acquisizione della documentazione da esaminare.

Nelle quarantott’ore che seguirono, sebbene per nulla entusiasti dell’intrusione nei loro affari, Gianluca Pisanti e Antonio Della Monica, i soci di Alfredo de Silvestri, si attennero a quanto disposto dal magistrato e fornirono al commissario tutto ciò che aveva chiesto, movimenti bancari dei conti personali compresi.

Procedendo nell’esame della documentazione acquisita, Iezzo riscontrò che lo studio curava gli interessi di numerose imprese, presumibilmente intestate a vari prestanome del clan: era chiaro che quelle attività imprenditoriali servissero a ripulire i soldi sporchi, ma non c’era alcuna prova.

‘I tre commercialisti sono proprio bravi’ fu l’amara riflessione di Iezzo, che provò ad ipotizzare quale fosse lo schema criminoso messo in atto.

Innanzitutto gli emissari del clan consegnavano il contante da riciclare a imprenditori collusi; poi le società controllate dai malavitosi, tramite prestanome, emettevano fatture false intestate a quegli stessi imprenditori; questi ultimi, a loro volta, pagavano le società con bonifici; e, alla fine, gli uomini del clan ritiravano i soldi puliti con ripetuti prelievi di somme modeste, per non dare nell’occhio. La procedura coinvolgeva numerose aziende ed era spalmata su decine di conti correnti bancari e postali sparsi sull’intero territorio nazionale. Per di più si potevano anche iscrivere le perdite al passivo sul bilancio delle varie società coinvolte nel riciclaggio e così evadere le tasse.

Ma di tutto questo non c’erano prove evidenti a carico degli studi di via Verdi 19, di Milano o di Ginevra, dove avevano sede legale le imprese, né riscontri palesi sulla riconducibilità delle stesse aziende agli affari illeciti del clan. 

Al momento restava un’ipotesi.

‘Quando il giudice investirà la Guardia di Finanza delle indagini patrimoniali sulle cartiere coinvolte, saranno le fiamme gialle a scavare più a fondo ’ pensò Iezzo: lui doveva concentrarsi sull’omicidio.

Continua …

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