L’ultimo utopista. L’imbarazzo di fronte a Gorbačev

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Michail Gorbačev nel 1989 (Fonte: Wikipedia)

La reazione del mondo di fronte alla morte di Michail Sergeevič Gorbačev è stata di grande imbarazzo. C’è stato chi lo ha celebrato, c’è stato chi lo ha rimpianto, c’è stato chi lo ha giustificato – tra i migliori interventi giustificativi quelli di Massimo D’Alema su La Stampa e di Luciana Castellina su Il Manifesto– chi si è limitato a parole vaghe, c’è chi ci ha sputato sopra ma si tratta di personalità evidentemente fascistiche nei modi e nell’atteggiamento che possiamo anche trascurare. In Russia, imbarazzo e ostilità sono stati gli aspetti dominanti, spesso il primo tradiva la seconda. L’uomo che ha distrutto l’Impero: lo si è considerato innanzitutto un distruttore. Il fatto che le sue ambizioni fossero ricostruttive, fin troppo ricostruttive, passa per mera ingenuità.

L’imbarazzo di fronte a Gorbačev è giustificato perché l’esperienza storica e politica della perestroika è piena senz’altro di errori e incertezze e ingenuità. Essa però ci è divenuta estranea soprattutto per una ragione: è stata l’ultima volta che la politica si è sentita in dovere di aprire all’utopia. Figlio di una ideologia di parossistica speranza quale era il comunismo, Gorbačev si sentiva in dovere di coprire quella che di fatto era una ritirata con grandi slogan, sempre molto vaghi, ma che sollecitavano grandi speranze: si trattava di integrare socialismo e democrazia, di creare una “casa comune” europea condivisa tra est e ovest, di estendere addirittura a tutto il mondo il concetto di “casa comune”, infine di riformare l’URSS senza perdere la forma federale dello Stato ma limitandola e garantendo i diritti di nazioni e nazionalità e anche quelli delle minoranze interne. Nessuna di queste grandi speranze si è realizzata e possiamo dire retrospettivamente che erano figlie di un generico umanitarismo e di una grande sottovalutazione degli interessi degli attori, quasi una sorta di meccanico rovesciamento della mentalità dei padri fondatori del bolscevismo, spietati e lucidi.

Ma la percezione di estraneità che proviamo rispetto al grande defunto sta nel fatto che non solo la sua utopia, ma l’utopia in genere, non tocca in nessun modo la politica di oggi. Perfino la “riconversione ecologica” o “transizione ecologica” ha forse aspetti irrealistici, ma non è un’utopia e di speranza ne veicola poca. Non a caso, la versione più ottimistica del discorso ecologista è stata la “decrescita felice”, che retrospettivamente ci appare ormai mancata, perché le infelicità si toccano con mano già ora.

Questa mancanza di utopie non si deve solo alla complessità delle cose, al maturare di un approccio più laico, semplicemente alla maggior percentuale di anziani sui giovani. Forse essa è dovuta anche al fatto che la globalizzazione successiva al 1991 è stata in parte anch’essa il tentativo di realizzare un’utopia – o almeno una sorta di grande narrazione – ma di taglio ben diverso da quello presente in Gorbačev. La linea che prevalse allora fu quella della globalizzazione come processo che dava ai vecchi paesi dominanti – l’Occidente – il controllo sulle grandi aree di innovazione tecnologica e permetteva la crescita dei paesi ex-deboli o ex-terzomondiali attraverso la delocalizzazione delle industrie (o la loro morte in seguito alla concorrenza dei nuovi paesi) dal lavoro più usurante e dalle tecnologie più inquinanti, ivi compresa la inquinante e devastante impresa di estrazione di risorse dalla Terra. Questo progetto, basato sulla metafora della distinzione tra software e hardware (noi facciamo il software, voi fate l’hardware) fu quello che fu messo in pratica e in questo progetto per la Russia non c’era proprio posto, essa fu trattata addirittura con disprezzo. O, per meglio dire, il posto che era riservato alla Russia era appunto quello di fornitore di materie prime, un ruolo che l’URSS aveva già avuto in base all’incapacità dell’industria pianificata di funzionare, a cui i riformatori sovietici avevano sperato di sfuggire e che invece la Russia post-sovietica avrebbe recuperato, ma con un nuovo spirito, come vedremo.  

Questo progetto prevedeva che le vecchie aree industriali dell’Occidente morissero o vivessero di assistenza, ma si riteneva allora che la gran parte della popolazione avrebbe potuto vivere di finanza, informatica, mass media e spettacoli, etc. Il mondo si ristrutturò così in metropoli di servizi, periferie abbandonate, e aree di sviluppo industriale e minerario al tempo stesso a veloce arricchimento e altrettanto veloce devastazione. Paradossalmente, la vecchia sinistra – per non morire – ci si è adeguata, soltanto sperando di poter massimizzare la quota di figli di operai che potessero accedere al lavoro “pulito”: il blairismo è stato questo programma ed è ancora quello dominante nei partiti della vecchia sinistra.

Ma c’erano due imprevisti che si sono puntualmente realizzati. In primo luogo, era inconsciamente razzista l’idea che il “software” potesse essere tenuto eternamente nelle mani degli stessi soggetti. È vero che la concentrazione del sapere crea condizioni per ulteriori accrescimenti del sapere. A tutt’oggi, le tecnologie più avanzate in campo militare sono situate in Occidente, a quanto pare. Ma su tanti altri punti la possibilità di concorrenza dei paesi emergenti è evidente come lo è il fatto che non si limitino ad essere quelli che producono le merci più inquinanti e distruttive per chi le lavora. I paesi emergenti iniziarono a considerarsi come dei poli alternativi e dei centri alternativi di affari, sfidando sempre più l’Occidente. Come se non bastasse, il problema del controllo sulle materie prime – decisivo fin dalla prima guerra del golfo, già nel 1990 – è diventato sempre più stringente, proprio perché per moltissimi Stati le risorse minerarie sono il modo in cui si sta nel mercato mondiale e si comprano i prodotti di alta tecnologia dagli altri paesi. Così le guerre per il controllo delle risorse minerarie diventarono sempre di più, sotto la copertura della lotta al terrorismo: Iraq, Siria, Libia etc. E, nel contempo, la Russia stessa diventò un grande impero minerario e scoprì, come Saddam, che più territori si acquistano, più si controlla anche il mercato della risorsa e si può usare politicamente quest’arma. Putin, che all’inizio era piaciuto proprio perché aveva rinunciato a tentare di rendere la Russia un paese concorrente all’Occidente e lo aveva inchiodato al suo ruolo di nazione esportatrice di idrocarburi, elaborò progressivamente un modello di rivincita poi risultato, se non vincente, almeno altamente efficiente, almeno fino al febbraio 2022: diventare fornitore di risorse minerarie di una larga parte dell’Europa e chiedere perciò la complicità e la tolleranza per l’espansione dell’Impero minerario stesso.

Per fortuna, questi progetti non sono omogenei tra loro. Nonostante la sigla BRICS, la Russia e il Brasile, la Cina e l’India non hanno gli stessi interessi e non sembrano essere diventati un’alleanza né militare né politica. Ma, d’altra parte, l’Occidente non ha saputo rinunciare alla sua utopia perdente. L’Occidente si vive come cittadella assediata e continua a sperare nella sola forza che possono avere la superiorità tecnologico-militare da un lato, d’altro lato la residua attrattività del modello liberal-democratico di società su coloro che si ribellano alle autocrazie vincenti. Quest’ultima non è poca cosa, a meno che voi non pensiate che le donne afgane o gli studenti di Hong Kong o di Taiwan, o gli ucraini appunto, non siano che cervello-lavati condizionati dai potenti raggi telepatici dell’America e della NATO. Ma si tratta di resistenze che non formano un solo blocco e che l’Occidente stesso non sa valorizzare. Non dimenticate che la resistenza ucraina ha sorpreso lo stesso Biden, che aveva offerto un piano di fuga a Zelenskij.

Così, l’utopia realizzata della globalizzazione, quella che ha sconfitto l’utopia irrealistica di persone come Gorbačev e di chi ci aveva creduto (chi scrive, per esempio), quando è entrata in crisi, ha portato via tutto con sé. Il mondo di oggi è un mondo di conflitti realisticamente giocati e di desideri di potenza ben coltivati, ma senza utopie. I compatrioti di Gorbačev hanno mediamente adottato l’ideologia più diversa da quella gorbacioviana che potevano mai trovare sul mercato: autocrazia, progetti di riconquista dell’impero, militarismo. Ma anche altrove non si sa trovare la cifra di un progetto che sia credibile per tenere il mondo insieme, un progetto senz’altro laico, post-utopico, ma aperto a speranze. Per generica e approssimativa che sia, la nozione gorbacioviana di “casa comune” continua a sfidarci.

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