Quando non si sente più Dio

tempo di lettura: 5 minuti
Fonte: https://www.gaiastraus.com/

In ogni tempo e dovunque, l’uomo ha creduto nell’esistenza di una o più divinità a cui ha cercato di relazionarsi tramite le diverse religioni. La spiritualità è parte integrante della natura umana. La fede in una realtà trascendente ha accompagnato la storia di tutte le civiltà umane. Già Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.) affermava nei suoi scritti: «Se tu percorrerai la terra, potrai trovare città senza mura, senza lettere, senza re, senza case, senza ricchezze, senza monete, senza teatri e palestre; ma nessuno vide mai né mai vedrà una città senza templi e senza Dei».

Eppure, oggi, sembra che l’affermazione della credibilità di Dio non sia affatto così ovvia. Alcuni, nel difendere la credibilità di Dio, avvicinano la fede alla saggezza. Ritengono che credere sia, se non proprio razionale, almeno ragionevole: sarebbe così possibile raggiungere Dio attraverso la meditazione, la riflessione, il discernimento, buone e solide ragioni condurrebbero a Lui, ragioni che nel tempo si scoprono, e di cui si valuta il peso, lungo un profondo processo intellettuale e spirituale.

Per qualcun altro la fede in Dio deriva, invece, da una specie di follia: una follia lieta, benefica certo, ma che non ha niente a che vedere con il buon senso. È qualcosa che somiglia a una passione che improvvisamente ci domina, che spazza via come il vento ogni nostra resistenza, una specie di colpo di fulmine che si impadronisce di noi proprio come un innamoramento che ci finisce inevitabilmente addosso. Una fede, questa, che non emerge da una ricerca, che non deriva da una decisione personale, ma da una potenza che si impone prepotentemente nella nostra vita. Si crede in Dio non perché sia credibile, non perché ci siano delle buone ragioni che ci conducano a credere, ma perché non possiamo fare altrimenti. Crediamo a dispetto di tutto, anche se la storia, la natura, la realtà che ci circonda smentiscono la nostra fede. Crediamo a dispetto di tutte le ragioni che avremmo, invece, per rifiutare la nostra fede.

Un’altra corrente di pensiero è costituita da coloro che, partendo proprio dalla logica umana e dallo stato del mondo e del nostro universo, non ritengono affatto che Dio sia incredibile. Costoro non concepiscono la fede come un paradosso. Al contrario delle posizioni precedenti, essi dichiarano Dio perfettamente dimostrabile. È un pensiero, questo, che affonda le proprie radici fin dall’antichità, dove si riscontrano innumerevoli tentativi tesi a provare l’esistenza di Dio su basi esclusivamente razionali e scientifiche. Credere in Dio non dipenderebbe, così, da un semplice ragionamento o da un evento che ci avvolge e ci sconvolge l’esistenza, ma da elementi irrefutabili, perfettamente logici ed evidenti rispetto ai quali nessun essere umano intelligente può sottrarsi: così come un orologio rimanda a un orologiaio, il mondo non può essere concepito senza un dio che lo abbia fabbricato.

Dobbiamo riconoscere che molte idee classiche riguardanti la fede in Dio sono state credibili nell’epoca in cui sono state formulate. Avevano un senso del tutto legittimo nel contesto storico in cui sono state elaborate, e hanno saputo trasmettere elementi positivi alle persone ad esse contemporanee. In seguito la situazione è cambiata, ed oggi, forse, molte idee ci sembrano assurde, intrise di un linguaggio che non ci appartiene più, inscritte nel quadro di una cultura ormai scomparsa.

Esistono ancora, naturalmente, sostenitori che cercano ad ogni costo di mantenere vive queste idee, si sforzano di mostrarne la razionalità, cercano nuove prove, fanno ricorso al concetto di mistero nel tentativo da renderle venerabili, per impedire che vengano toccate e deturpate, sperando che in questo modo diventi vietato persino metterle in discussione.

È indubbio che vi sia una trasformazione in atto che riguarda la dimensione della fede. Ci confrontiamo con il mondo in modo completamente diverso rispetto al passato. Privilegiamo la ricerca di spiegazioni piuttosto che l’individuazione di un senso. Sembra, anche, che la stessa questione del senso non sia più il caso di riproporla, probabilmente non considerando che la conoscenza offre spiegazioni, non già senso, e che il senso è ciò che propone un orientamento, che offre un punto di riferimento complessivo.

Nel mondo d’oggi praticare davvero una qualsiasi religione è diventato difficile, se non impossibile.

Non sarebbe meglio, allora, rinunciare a ogni prospettiva religiosa, visto che questa risulta essere non più difendibile né dal punto di vista scientifico, né da quello morale, né da quello pubblico? Oppure decidere di rinunciare all’esperienza religiosa significa rinunciare a un aspetto significativo dell’essere umano? Significa fare a meno di una prospettiva di riferimento, di un grande patrimonio culturale che l’uomo ha elaborato nel corso della storia? Se vi rinunciassimo, insomma, non saremmo tutti più poveri? Non permetteremmo di lasciar cadere a priori tutte quelle possibilità che l’esperienza religiosa invece apre?

E se stessimo confondendo la fede con le credenze? Se, invece, la tesi della credibilità di Dio ci stesse orientando verso uno sforzo di revisione e di riformulazione? Se, invece di liquidare le antiche credenze come ingenuità prive di fondamento, si trattasse di riscoprire ciò che le dottrine classiche hanno voluto dire nel loro tempo, e provare a dirlo altrimenti, in funzione dei costumi, dei punti di riferimento, dei modi di vedere e di pensare odierni?

Di certo, se ripetessimo in modo puro e meccanico le formule tradizionali, sbaglieremmo. Esse hanno perso la pertinenza che dipendeva dalla loro relazione con il loro ambiente intellettuale, spirituale e sociale. Forse dovremmo cercare di comprenderle, reinterpretarle e affrontare un discorso credibile su Dio intrecciando un legame tra la fede, la scienza, la cultura, l’intuito, la riflessione e l’esperienza, senza timore, senza riduzione né annessione, lasciando a ogni ambito la propria specificità, ma evitando di dissociarli, riscoprire un’affermazione della credibilità di Dio che rimandi a una fede intelligente e a un’intelligenza credente.

L’antropomorfismo che ritroviamo nelle Sacre Scritture e nelle grandi tradizioni religiose non costituisce necessariamente un limite del pensiero umano. Guardando in profondità, e non a livello grossolano, scopriremmo che l’uomo, se nel parlare di Dio ha sentito la necessità di descrivere la relazione che intratteniamo con Lui, ha dovuto per forza utilizzare un discorso antropomorfico che si serve di immagini e di categorie umane per dirlo e confessarlo. Lemaître ci parla di un «Dio accessibile che l’uomo possa incontrare», una teologia che non può essere che antropomorfica e in cui l’antropomorfismo non viene affatto privato di pertinenza.

Calvino parlava della rivelazione come di un «adattamento: Dio si pone alla nostra portata, dice sé stesso nel nostro linguaggio, si esprime conformandosi alla nostra realtà per farsi comprendere da tutti». La teologia prende in considerazione, contemporaneamente, sia la vicinanza di Dio che la Sua distanza, sia la Sua presenza sia la Sua trascendenza. Se eliminassimo gli antropomorfismi vedremmo un polo scomparire. Se non li relativizzassimo, vedremmo dissolversi l’altro polo. Bisogna contemporaneamente servirsi di antropomorfismi e limitarli. Non si può fare a meno di immagini per percepire l’invisibile; tuttavia esse non vanno confuse con la realtà che intendono illustrare, in quanto la evocano, ma non la rappresentano. I miti, i simboli, le immagini sono necessarie: senza di loro non vedremmo nulla. Però forniscono un buon servizio solo se, mentre li utilizziamo, allo stesso tempo li delimitiamo, altrimenti le icone si trasformerebbero in idoli.

Nei meravigliosi ornamenti decorativi delle moschee islamiche l’artista introduce, da qualche parte, un piccolo difetto, affinché ciò che rappresenti la perfezione divina non possa allo stesso tempo pretenderla. Viene data una forma (senza la quale la percezione della verità non sarebbe possibile), ma ne viene segnato il limite (senza cui la verità diventerebbe superstizione).

Dio è quel dinamismo creatore che fa esistere ed evolvere l’universo nel suo insieme, e noi con lui. Il nostro mondo è evoluzione, si va costruendo secondo una logica naturale che ha come fine la libertà e come strumento la necessità. Da una materia fisica, grezza, si realizzano organi sempre più complessi. Uno dei misteri profondi della nostra conoscenza è il passaggio dal materiale delle nostre cellule e dei nostri atomi al concettuale dei pensieri e della coscienza. È il problema difficile, “the hard problem” come lo definiscono i neuroscienziati, perché nulla nella materia, fino ad oggi, è in grado di spiegare le qualità della mente.

Alva Noë, membro dell’Institute of Cognitive and Brain Science, dice che «i processi di analisi dell’informazione nel cervello non producono la mente perché niente nel cervello produce una mente». Guido Brunetti, psicologo, scienziato, professore universitario e scrittore, scrive in un suo saggio: «riteniamo che a guidare il cervello contribuisca anche un’altra struttura, anch’essa misteriosa, affascinante e dai mille colori: l’anima. Abbiamo un cervello, un corpo, una psiche, ma anche un’anima. Che è l’essenza dell’essere umano… la mente, l’anima, lo spirito, la coscienza, l’Io non sono spiegabili in base a processi neurofisiologici, sono “irriducibili” a fenomeni cerebrali, biologici. Sono entità indipendenti in continua interazione con il corpo. Siamo in presenza di un corpo “spiritualizzato”».

In questa dimensione spirituale dell’essere umano si manifesta tutto ciò che nella spiegazione rimane oscuro e resta ancora da decifrare, che ci impedisce di chiudere un sistema, che ci obbliga a lasciarlo aperto e incompiuto, e che ci riconduce all’idea di Dio.

Quando ci si crede arrivati, questa idea ci scuote e ci fa comprendere che il viaggio è appena cominciato. È un’idea che non ci mette a riposo, anzi ci agita e ci spinge in avanti, e si situa nella ricerca degli esseri umani, non certo nelle loro convinzioni o nelle loro conclusioni.

1 commento su “Quando non si sente più Dio”

  1. Sergio Pollina

    Riflessione estremamente interessante, che può, o meno, essere del tutto condivisa, ma che apre lo spazio per ulteriori approfondimenti, dato che l’argomento si presta a infinite discettazioni. L’autore mostra una profondità di pensiero meritevole di plauso perché sollecita in tutti noi la necessità di gettare uno sguardo su una materia ormai negletta che, invece, esigerebbe una più matura riflessione. Speriamo che alle parole di Coppola possano farne seguito altre che suscitino un rinnovato interesse per l’argomento da lui trattato.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto