Il sonno della ragione

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Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri – Biblioteca Nacional de Espana, Madrid (Fonte: Wikipedia)

Probabilmente Francisco Goya, quando dipinse il suo capolavoro intitolato Il sonno della ragione genera mostri, non immaginava nemmeno quanto le sue premonizioni artistiche fossero veritiere e sempre più perfettamente applicabili ai tempi che stiamo vivendo. Fin dai suoi inizi l’umanità è stata teatro di mostruosità. Perfino il mito della creazione, descritto nel libro della Genesi, ha inizio con due trasgressioni, perpetrate nel luogo più incantevole e incontaminato della terra: il giardino dell’Eden, nel quale ebbero luogo, rispettivamente, la disubbidienza al Creatore e, in seguito, l’omicidio di un uomo da parte di suo fratello. Se cose del genere potevano accadere in un mondo ancora incontaminato, nel quale i suoi abitanti godevano di tutto, come stupirci se oggi, che il mondo è sempre più simile a un luogo d’incubo, avvengano quotidianamente episodi, sia singoli che di dimensioni planetarie — come le guerre — che dimostrano ogni giorno di più “il sonno della ragione”? E questo “sonno” sta mettendo sempre di più in pericolo il bene più grande che abbiamo, e che abbiamo ottenuto dopo millenni di lotte e di sofferenze per conseguirlo. Per comprendere di cosa stiamo parlando sembra utile citare un recente articolo di Ezio Mauro, secondo il quale “Proprio in questi giorni stiamo assistendo ai segnali diffusi che annunciano uno sbalzo nella temperatura della pubblica opinione in Europa e negli Stati Uniti, dove fino a poco tempo fa si professava il culto della democrazia come valore assoluto e universale … Nel turbine della guerra il sistema europeo e occidentale è stato per il paese aggredito [l’Ucraina] un orizzonte di riferimento, una riserva di valori, una democrazia dei diritti e delle istituzioni nella quale vale la pena di vivere e per la quale si può addirittura morire: una promessa alla quale nel combattimento hanno creduto. Il fatto è che non ci crediamo noi … Ormai siamo al rovesciamento dei doveri democratici ridotti a vincoli di cui non si rintraccia più la ragione … E infatti il processo in corso passa attraverso nuove stupefacenti manifestazioni di disprezzo per la democrazia, ridotta dal populismo in una confisca permanente delle élite per impiantare la cappa del loro sapere fittizio, ingannando il popolo. Compiuta questa operazione, si realizza l’equiparazione tra democrazia e autoritarismo, e il gioco è fatto”.

Abbiamo evidenziato più volte il termine democrazia, perché essa è la forma di governo che il nostro Paese si è data dopo la ventennale parentesi della dittatura fascista e della monarchia, tanto è vero che il primo articolo della nostra Costituzione recita: “L’Italia è una repubblica democratica”. In una brevissima frase troviamo due termini fondamentali: (1) Repubblica, dal latino res publica, cioè “cosa pubblica”, (2) democratica, dal greco δῆμος (demos) «popolo» e κρατία (crazia) «governo» da cui Democrazia, o “governo del popolo”. Con la sua solita arguzia, uno dei più grandi statisti del secolo scorso, Winston Churchill, definì la democrazia: “La peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”. È della democrazia, allora, che ci accingiamo a parlare.

Poiché, come abbiamo detto, la democrazia è il “governo del popolo”, è essenziale che questo “popolo” sia fornito degli strumenti adatti per esercitarlo. Il primo di questi strumenti è la conoscenza, e sono veramente appropriate le parole che James Madison, quarto presidente degli Stati Uniti, scrisse in una sua lettera: “Un governo popolare senza informazione popolare o senza gli strumenti per raggiungerla, non è che il prologo di una farsa o di una tragedia, probabilmente di entrambe. La conoscenza dominerà sempre l’ignoranza. E un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura la conoscenza”. (Lettera a William T. Barry, 4 agosto 1822). Purtroppo è proprio la conoscenza che viene molto spesso a mancare quando si entra nell’agòne politico. I cittadini, ormai disillusi dalle troppe promesse mai mantenute e dallo stato delle cose in continuo peggioramento, ragionano secondo alcuni abusati stereotipi, “sono tutti uguali, l’uno vale l’altro”, “sono tutti ladri”, e così via. L’esercizio del voto, invece di rappresentare il momento “clou” dell’esercizio democratico, è divenuto un adempimento spesso noioso, disertato dai cittadini — tanto è vero che l’affluenza alle urne cala drammaticamente un anno dopo l’altro — e quindi il suo significato va perdendo sempre più valore.

Jason Brennan, illustre cattedratico della Georgetown University, nel suo volume intitolato Contro la democrazia (Luiss ed., 2018) approfondisce il concetto di libertà politica, da non confondere con le altre libertà. Essa non può essere assoluta quando coinvolge un’alta percentuale di cittadini. Egli spiega che “Un elettorato non è un individuo, ma un insieme di individui con scopi, comportamenti e credenziali intellettuali distinti. Non è un corpo unito in cui ciascuna persona propugna le stesse politiche. Al contrario, in un elettorato ci sono persone che impongono le loro decisioni su altre. Se la maggior parte degli elettori agisce con stupidità non fa del male soltanto a sé stessa. Fa del male agli elettori meglio informati e più razionali, agli elettori che appartengono a minoranze, ai cittadini che si sono astenuti dal votare, alle generazioni future, a bambini, immigrati e stranieri che non sono nelle condizioni di votare ma sono comunque interessati o danneggiati dalle decisioni democratiche. Siamo, quindi, liberi sì, ma liberi di fare il bene o il male di noi stessi, non quello degli altri … dobbiamo spiegare perché alcune persone hanno il diritto di imporre cattive decisioni agli altri. In particolare … per giustificare la democrazia abbiamo bisogno di spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo incompetente”. Parlavamo di libertà in democrazia, e la libertà di parola e di voto sono due di tali libertà. Ma, dice Brennan: “La libertà di parola, generalmente ci dà un potere soltanto su noi stessi, mentre solitamente il diritto di voto ci dà — come entità collettive, se non come individui — un significativo potere sugli altri”.

Qual è, allora, la soluzione, se esiste? Una, estremamente interessante, è quella proposta dallo stesso Jason, il quale fa un ragionamento che può essere facilmente condiviso, e cioè, se è vero che il grande problema della democrazia è rappresentato dalla scarsa conoscenza degli elettori, esso è ancor più grave se tale mancanza di conoscenza riguarda, estesamente, tutte le classi politiche. Oggi, anche per la diffusione di istanze populistiche, molte classi dirigenti, nel nuovo millennio, hanno raggiunto un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche. Una di tali reazioni è contenuta nel già citato volume di Jason Brennan, dove egli avanza la proposta di integrare la democrazia con l’epistocrazia (governo di coloro che sanno; più precisamente, un regime politico è epistocratico nella misura in cui il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze, la capacità e la buona fede di agire sulla base di quelle qualità). Nel suo ragionamento egli pone la domanda: “Se all’idraulico e al medico è richiesto di conoscere un mestiere, non è opportuno richiedere un certo grado di preparazione a chi deve svolgere un compito tanto più socialmente importante come quello di rappresentante o di governante? La stessa Costituzione della Repubblica richiede l’abilitazione per l’esercizio delle professioni (articolo 33), dispone che l’accesso agli uffici pubblici avvenga sulla base dei requisiti stabiliti dalla legge (articolo 51), prevede l’accesso agli impieghi pubblici e alla magistratura previo superamento di un concorso (articoli 97 e 106). Ci si può quindi chiedere perché si impongano questi requisiti per l’accesso a tante cariche e non ad altre. Possiamo quindi dire che l’epistocrazia può operare come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto di essa. Domandiamoci schiettamente: quanti di coloro che attualmente ci governano possiedono i requisiti necessari per farlo? Ci asteniamo dal fare nomi, ma basta dare un’occhiata alle loro facce e studiare i loro curricula per rendersi facilmente conto che le mani nelle quali ci troviamo non sono certamente quelle di persone integerrime, di cultura, politica e generale, di pratica nell’esercizio della cosa pubblica”.

L’argomento è stato oggetto di esame anche da parte di Sabino Cassese, che nel suo La democrazia e i suoi limiti (Mondadori, 2017) spiega: “Questa componente è stata chiamata di recente epistocratica, nel senso che attribuisce il potere a coloro che sanno, ai competenti. Già Joseph Schumpeter (Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano ETAS, 1977) aveva osservato che in politica spesso non prevale la razionalità e che caratteristica di un governo democratico è la presenza di più élite in concorrenza tra di loro per la conquista del voto popolare. Studi recenti sono andati oltre, mettendo in dubbio la stessa componente democratica. Hanno posto in luce che i votanti sono per lo più ignoranti e disinformati, oppure prigionieri di bias cognitivi, per cui c’è da rallegrarsi se la partecipazione politica diminuisce. Moltitudini incompetenti, irrazionali o ignoranti prendono decisioni che gravano su tutta la collettività, esercitando un potere che non trova una giustificazione. La democrazia esclude il voto ai più giovani, ma lo riconosce agli incompetenti”.

Giunti a questo punto di un argomento che richiederebbe un intero volume invece di queste poche righe, possiamo avviarci alla conclusione, che troviamo nelle parole di Massimo Salvadori in Democrazia, storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli editore, 2015): “La «democrazia rappresentativa» è un sistema fondato sulla combinazione di quattro poteri … (1) Il potere dei partiti, dei loro quadri organizzativi, dei loro leader politici, insomma di coloro che esercitano secondo una gerarchia di funzioni la professione della politica, di organizzare e orientare i loro militanti e simpatizzanti di selezionare preventivamente i candidati al Parlamento e presentarli agli elettori, ai quali rimane solo una facoltà sanzionatoria sulla base di liste che offrono una limitata possibilità di scelta o, nel caso di candidati unici, neppure questa … (4) Il potere del governo sia di applicare le leggi sia di esercitare una propria iniziativa di proposta in questo campo. Si vede bene come un tale sistema lasci al popolo una quota di potere che nulla ha a che fare con l’attribuzione ad esso della piena sovranità implicita nel concetto di «democrazia» … Il concetto della sovranità popolare — che ha avuto una forza tanto irresistibile da diventare un dogma politico — non ha mai avuto riscontro nell’esercizio concreto del potere … lasciando al popolo l’illusione di essere pur sempre sovrano grazie al voto nelle competizioni elettorali” Salvadori, poi, passa a citare Hobbes, “pervaso da un radicale pessimismo antropologico, secondo cui gli uomini nella loro spontaneità sono portati a perseguire i propri interessi particolari sotto la spinta di primordiali passioni , a cui deve contrapporsi la disciplina propria dello Stato forte”. A queste seguono altre pesanti accuse, che richiamano strettamente quelle rivolte da Platone: “La democrazia è la forma di governo in cui maggiormente trovano alimento le passioni, le opinioni non vere, lo spirito di fazione, in cui le leggi mancano di una sufficiente stabilità”. L’inevitabile e nefasta conseguenza è che «le decisioni siano prese seguendo non la retta ragione, ma l’impulso del sentimento». E Salvadori così conclude: “La democrazia, intesa come sovranità del popolo è un mito”.

E così ritorniamo all’inizio, perché se “le decisioni non sono prese seguendo la retta ragione”, della ragione prevale il sonno, un sonno pericolosissimo, i cui risultati si vedono nelle atrocità giornaliere, a livello individuale e nazionale in tutti e 179 gli stati democratici della Terra, e sottacendo per carità di patria tutti gli altri. Non intendendo attribuirgli più che una semplice espressione frutto di esperienza senza alcuna velatura confessionale, mi sembrano pertinenti per chiudere le parole di Saulo di Tarso nella sua lettera ai Romani: “E fate questo, rendendovi conto del tempo nel quale viviamo: è tempo ormai per voi di svegliarvi dal sonno” — Romani 13:11.

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