Un triste declino

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Mi domando sempre più spesso, da alcuni anni a questa parte, che cosa mai abbiano fatto di tanto male gli italiani per meritarsi al governo persone come Matteo Salvini, per esempio. Un popolo che ha generato personaggi come Galileo, Giotto, Caravaggio, Dante, Petrarca, Cristoforo Colombo, Giuseppe Verdi e, nel campo della politica, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Camillo Benso di Cavour, Benedetto Croce, e andando più indietro, Giulio Cesare, Niccolò Machiavelli, e manca lo spazio per menzionarli tutti. Sono italiani di cui possiamo andare fieri e orgogliosi, e allora cosa abbiamo fatto noi per meritarci l’attuale accozzaglia di politicanti da mezza tacca che mortificano la dignità di questo Paese? La risposta non è difficile da trovare: ce lo meritiamo proprio perché siamo italiani; ce lo meritiamo proprio perché, come popolo, non siamo poi tanto migliori di loro; ce lo meritiamo perché, in generale, i politicanti sono l’espressione del popolo che governano, con rare eccezioni. Ed è allora assolutamente pertinente, al riguardo, l’osservazione che apre uno dei migliori testi di Maurizio Viroli, di cui non è certamente necessario fare il panegirico; in esso, intitolato L’autunno della Repubblica, egli fa questa osservazione: “L’autunno è splendore struggente e trionfo dei colori e dei profumi dell’estate che finisce, ma anche il tempo malinconico e uggioso che annuncia il gelo dell’inverno. In questo senso è simile a ciò che cerco di descrivere in questo libro: l’agonia della nostra Repubblica, che sta morendo di corruzione per la stoltezza morale e intellettuale e la malignità dei suoi governanti, per la superficialità, l’indifferenza, l’ottusità di spirito e l’animo servo di troppi suoi cittadini”. In queste parole, severe ma veritiere, sembra di risentire l’accorato appello del Grande Fiorentino: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”. Questa deprimente descrizione dell’Italia e degli italiani è molto triste, ma è verace, e ha profonde radici nei secoli scorsi se, come scrive Machiavelli nelle sue Istorie Fiorentine, III.5: “Veramente nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quella avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni, esaltazione de’ tristi”.

Purtroppo, come dice ancora Viroli, il trascorrere del tempo non ha mutato troppo le cose, e “Di spirito repubblicano ce n’è ancora meno di allora e l’Italia è ancora più corrotta, più avvilita, più plebea”.

Quanto sopra può sembrare che rappresenti un eccesso di pessimismo; in fondo siamo un Paese libero, chiunque può manifestare il proprio pensiero, vi sono garanzie costituzionali che ci proteggono, e così via. Anche se questo è vero, c’è un “ma”. E questo “ma” è ben illustrato dallo stesso Viroli quando afferma che: “Ritengo infatti che l’Italia sia un paese libero, nel senso che c’è, sì la libertà, ma quella dei servi, non quella dei cittadini”. Viroli scrive queste osservazioni nel corso del lungo periodo di “regno” del “Re di Arcore”, che per vent’anni e in vent’anni, come un fascismo sotto altra veste, ha dominato, corrotto, stravolto l’assetto democratico e repubblicano del paese, tanto da far dire a Giovanni Sartori: “Le cose che mi spaventano sono ormai parecchie; ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa occasione [l’approvazione del lodo Alfano che garantiva la sospensione del processo penale alle alte cariche dello Stato] da una maggioranza dei nostri ‘onorevoli’ (sic) mi spaventa più di tutto. È come se fossero collaboratori domestici. Altro che bipartitismo compiuto! Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti” (Giovanni Sartori, Il sultanato, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 127).

Queste parole amare, ma assolutamente corrispondenti alla realtà, indussero Viroli a commentarle così: “Mi sono chiesto … perché proprio in Italia ha avuto successo l’esperimento politico di trasformare — senza violenza — una repubblica democratica in una corte che ha al centro un signore circondato da una pletora di cortigiani ammirati e invidiati da una moltitudine di persone di animo servile. La risposta che mi è sembrata più plausibile è che tutto questo è avvenuto per la nostra secolare debolezza morale”. Questa debolezza morale è ancor oggi il tratto caratteristico del nostro popolo, proprio come lo era quando Ernesto Rossi scrisse: “Conosco ormai troppo bene gli italiani e la loro storia per farmi illusioni. Cavour fu un inglese, nato per sbaglio in un paese balcanico. E non si cambiano in due o tre generazioni le caratteristiche d’un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri ad ogni dignità di vita sociale” (Ernesto Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Laterza, Bari 1968, pp. 62-63.

Facendo un salto temporale ai nostri giorni, non possiamo non rilevare un’assurdità tutta italiana: quella che ha visto “cacciare” dal governo una delle personalità più illustri d’Europa, un economista di vaglia, un uomo integerrimo, Mario Draghi, per far posto a una completa nullità nei campi in cui lui eccelleva, e che, come vice, uno dei due che è stata costretta a scegliersi è Matteo Salvini, nominandolo, inoltre, ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Se qualche italiano, non ancora obnubilato, si chiedesse quali sono i meriti eccezionali che hanno portato questi due personaggi a ricoprire incarichi così prestigiosi e di grande responsabilità, rimarrebbe, purtroppo, senza risposta. O meglio, la risposta ci sarebbe, ma suonerebbe come inaccettabilmente ridicola. Lui è noto per le sue “sparate” anti tutto; contro i vaccini, contro gli immigrati, contro l’Unione Europea, contro la democrazia (tanto è vero che ha stretto un “patto scellerato” con la signora Le Pen). È un uomo che non si vergogna a baciare crocefissi e madonne, per poi ripudiare ferocemente l’insegnamento del crocefisso che porta al collo, secondo il quale: «Se un fratello o una sorella è in uno stato di nudità e mancante del cibo sufficiente per il giorno, e uno di voi dice loro: “Andate in pace, riscaldatevi e saziatevi, ma non date loro le cose necessarie per il corpo, che utilità ne avreste?”» (Giacomo 2:14). Ma, forse, per Salvini il “fratello” è solo quello bianco, padano, cattolico e benestante.

Altra domanda: cos’è cambiato in meglio per la gran parte degli italiani non appartenenti al club esclusivo di Meloni, del quale fa parte anche il ‘democratico’ Orbàn, da quando lei è al governo? La sanità era, ed è, allo sfascio totale; liste di attesa di un anno anche per chi sta veramente male. Le grandi città sono quasi tutte assediate dai rifiuti, se si dà un’occhiata a Palermo c’è da rabbrividire. In sordina, anche senza l’orbace, sta riportando in superficie ciò che da sempre è latente nell’animo degli italiani: il bisogno di un capo, autoritario, forte con i deboli e debole con i forti. A chi dobbiamo tutto questo? Lasciamo che a rispondere sia Étienne de la Boétie, illustre letterato e politico francese del ‘500, il quale alla domanda: «Chi ci toglie la libertà/potere “ha solo due occhi, due mani, un corpo”, non ha niente di diverso … eccetto il vantaggio che voi gli fornite per distruggervi. Da dove prenderebbe tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro?» (Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, 2011, pp. XIV-XV). E poi aggiunge: “Per ora vorrei solo comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo … Sono dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo; è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. La risposta alla domanda di de la Boétie è semplice: Siamo noi, i cittadini, che diamo forza e potere a chi poi ne abusa e ci umilia, e questa forza oggi è rappresentata dal voto. In questo momento, secondo sondaggi più o meno attendibili, il quaranta per cento degli italiani è orientato a sostenere un governo di destra, attribuendo il 30% dei suffragi a Fratelli d’Italia e il 10% alla Lega. È evidente che, mancando un’alternativa di qualunque colore (la sinistra è pressoché scomparsa, e gli altri movimenti sono briciole sparse), gli elettori danno il loro sostegno a chi ritengono possa ricambiarlo. E il denaro non è un fatto privato ma un vero e proprio potere politico. I soldi permettono di distribuire favori, ovvero dei benefici corrisposti non per ragioni o meriti particolari ma perché l’oligarca ritiene che la persona beneficiata lo ricompenserà con la sua “amicizia”, lealtà e perfino devozione. Le anticamere dei “potenti” sono sempre piene di chi mendica favori ed elargizioni e, come dice Viroli, “Chi ottiene favori e sa che li deve al potente e non ai propri meriti, perde immediatamente, ammesso che l’abbia mai avuta, la mentalità della persona libera e si fa sostenitore del potente sia per la speranza di nuovi favori sia per non perdere quelli acquisiti. Il “potente” viene sostenuto non perché si condivide la sua ideologia o i suoi ideali, ma proprio perché è potente e perciò può fare qualcosa per noi, a scapito degli altri. D’altra parte non diciamo niente di nuovo, se già Francesco Guicciardini, nel Cinquecento, coniò il motto “o Franza o Spagna, purché se magna”, che descriveva, e descrive, il pensiero dominante degli italiani: Opportunismo.

Il trascorrere dei secoli non cambiò di uno iota il pensiero del Guicciardini, se lo ritroviamo, con parole diverse, ma con lo stesso significato, anche in quelle di uno dei nostri più grandi poeti, Giacomo Leopardi: “Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci” (Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Sansoni, 1969, p. 975). Secondo Leopardi, “Nel loro animo non c’è posto per l’immaginazione e per le illusioni che nutrono gli ideali generosi di libertà e spingono all’azione, finanche al sacrificio. Disprezzano i grandi che li hanno, e con consumata abilità li deridono. Il vero male italiano è la mancanza di libertà interiore … Questo bene è quello che nei secoli è stato chiamato coscienza morale, vale a dire la voce interiore che ti dice che i tuoi principi, quelli che fanno di te una determinata persona, sono quelli e non altri”.

Il grande Salvemini, nella sua analisi degli italiani, scriveva: “Gli italiani sono moralmente deboli perché non riconoscono l’autorità della coscienza. Non la interrogano e non la considerano un’autorità infallibile e inflessibile. Sono diventati invece maestri nell’arte di ingannarla o di metterla a tacere con le indulgenze, le confessioni e le restrizioni mentali … È solo dopo essere vissuto in paesi protestanti che io ho capito pienamente quale disastro morale sia per il nostro paese non il ‘cattolicismo’ astratto, che comprende 6666 forme di possibili cattolicismi … ma quella forma di ‘educazione morale’ che il clero cattolico italiano dà al popolo italiano e che i papi vogliono sia sempre data al popolo italiano”. “I servi emancipati non diventano subito cittadini liberi, ma liberti: gli sventurati”, come li ha descritti efficacemente Pietro Calamandrei nel 1945, “Che hanno ancora sui polsi le lividure delle catene ventennali [del periodo fascista] e nella schiena l’anchilosi dell’assuefazione agli inchini; e non riescono a sentire i nuovi doveri della libertà … La tragedia dell’Italia è la sua putrefazione morale, la sua indifferenza, la sua sistematica vigliaccheria … E le persone civili, che sono tante, sono inerti perché sono scoraggiate, ma in tempi brevi possono tornare a operare”. E Viroli così conclude: “A più di sessant’anni di distanza dobbiamo malinconicamente constatare che gran parte degli italiani non si sono elevati da liberti a cittadini, ma regrediti da liberti a servi volontari”.

Credo che dopo questa disamina dell’argomento, adesso siamo in grado di rispondere alla domanda: Che male abbiamo fatto per meritarci Salvini, Meloni e tutta la loro allegra brigata? E la risposta è: nessun male, solo quello di essere italiani!

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