Vent’anni dopo: un disastro

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Immagine di centinaia di afgani che occupano disperatamente le piste dell’aeroporto di Kabul nell’intento di fuggire dal Paese

Le immagini diffuse su scala globale già sono storia: centinaia e centinaia di giovani afgani corrono disperati sulle piste dell’aeroporto di Kabul: con il ritiro delle truppe americane i talebani sono tornati, così come la disperazione tra la popolazione. Si afferrano ai portelloni dell’ultimo aereo militare statunitense che sta decollando. Una dozzina resta aggrappata all’aereo che in volo perde almeno 7 uomini precipitati dall’alto. I morti certi di questa scena dell’orrore sono almeno 5, accertati. Le immagini sembrano quelle dei film yankee, eppure gli ultimi due anni ci hanno insegnato che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione.

Vent’anni sono tanti, un fallimento che porterà delle conseguenze durissime, un salto indietro clamoroso per la popolazione afgana, dalla sfera dei diritti umani alle libertà conquistate sino alla modernizzazione della società. Tutti hanno paura, specialmente le donne che, sotto il pugno duro dei talebani, si vedranno annullate in libertà e diritti. Per molte ragazze della “nuova generazione”, per chi è nato dopo il 2001, indossare forzatamente il burqa rappresenterà una novità, ma il passato delle donne afgane pare legarsi indissolubilmente a quello delle nuove generazioni che dinnanzi hanno un mucchio di parole in politichese ma nel concreto si vedono abbandonate dal proprio governo, dalla NATO, dagli Stati Uniti d’America. E sì, perché dopo le immagini delle città afgane che pullulano di gente in fuga e quelle dell’aeroporto di Kabul, nei prossimi giorni saranno le dichiarazioni dei maggiori capi di stato a occupare la scena. Biden forse consapevole forse no che questa scelta di ritirare le truppe ha già macchiato il suo mandato, si limita a bacchettare i leader afgani colpevoli di non aver difeso il loro Paese. “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata quella di costruire una nazione unita e democratica, il nostro unico interesse è sempre stato, e rimane, quello di prevenire attacchi terroristici in USA.” Nel discorso alla nazione il presidente Biden incalza: “gli americani non possono combattere una guerra che neanche gli afgani vogliono combattere per loro stessi”. Vanno però ricordate alcune cifre al Presidente in carica, cifre che fanno riflettere sul ruolo “esportatore” degli americani come prima democrazia al mondo. Dal 2001 ad oggi la guerra in Afghanistan è costata agli USA 1 trilione di dollari (mille miliardi)… Todd Harrison, esperto del Center for Strategic and Budgetary Assessments, in uno studio spiega che “il costo annuale per ogni soldato impiegato nella guerra in Afghanistan è stato pari a 1,1 milioni di dollari contro i 67mila dollari all’anno della Seconda Guerra Mondiale”. Approssimativamente i civili uccisi sono stati 50.000, i soldati che hanno perso la vita 66.000, oltre a 444 operatori umanitari e 72 giornalisti. Adesso puntare il dito sulle responsabilità mancate dell’alta sfera della politica afgana forse non basta.

E l’Europa? Questi vent’anni di occupazione yankee hanno fatto comodo alle nazioni dell’Unione Europea. Gli Stati Uniti hanno alleggerito il carico delle preoccupazioni “occupandosi” del pericolo del terrorismo. Questo non significa che la guerra in Afghanistan non sia stata onerosa, l’Italia infatti ha speso circa 9 miliardi di euro, la Germania 19 miliardi mentre l’Inghilterra 30 miliardi. L’esempio di una guerra inutile iniziata nel lontano 2001 non è servito però da monito per l’Italia che in questi anni ha continuato a vendere armi a Paesi dove la presenza terroristica è molto forte, noncurante del fatto che la vendita o anche il semplice transito di armi è vietato in Paesi che presentano conflitti e guerre. Tra i Paesi ai quali l’Italia vende armi ritroviamo il Qatar, il Pakistan, dove tra l’altro è risaputa la presenza dei principali leader talebani, al terzo posto la Turchia di Erdogan e al quarto posto gli Emirati Arabi Uniti. Intanto nelle ultime ore è chiaro come l’Europa tema un’ondata di profughi dall’Afghanistan, tanto da chiedere di non fermare i rimpatri forzosi di chi ha chiesto ma non ha ottenuto l’asilo politico. La storia pare ripetersi con ondate di migranti respinti un po’ qui un po’ lì pur di non essere accolti nel Vecchio continente. Qualcuno presto dimenticherà le immagini dei giovani afgani precipitati dall’aereo cargo militare e si scaglierà sul flusso incontrollato di persone che transitano illegalmente. Ma oltre all’Europa a preoccupare sarà la reazione della Turchia, geograficamente più vicina a quelli che molti definiscono un esodo di almeno mezzo milione di persone.

Una pioggia di critiche ha colpito l’amministrazione Biden, ma sarebbe onesto intellettualmente capire che, più che discutere sul ritiro, bisognava soffermarsi sulle sue modalità. La data del ritiro infatti inizialmente era prevista per l’11 settembre 2021, a vent’anni esatti dall’attacco alle torri gemelle. Invece l’ipotesi di questo anniversario è stata bruscamente interrotta da una frettolosa ritirata, che ha lasciato impreparati in primis intere fasce di popolazione afgana. Consapevoli che gli attacchi talebani seguono un ritmo militare ciclico, la decisione di Biden di ritirare le truppe nel periodo peggiore dell’anno ha permesso ai talebani di entrare in scena senza neanche dover combattere, conquistando le principali città del Paese per poi prendere infine Kabul. L’annuncio del ritiro “inaspettato” è stato un vero e proprio schiaffo alle migliaia di famiglie afgane che in questi 20 anni hanno aiutato l’operazione militare yankee. Chi come infiltrato, chi come traduttore e interprete, chi come collaboratore, gli afgani in questi anni hanno retto l’operazione per poi trovarsi abbandonati con i talebani nuovamente al potere. Un errore di calcolo, come viene definita la scelta di Biden, è costato caro. Non sappiamo se “riconquistare” l’Afghanistan sarà nuovamente nel mirino statunitense o di altri Paesi della NATO nel futuro, quello che appare chiaro è che ci siamo abituati alle guerre inutili, quelle iniziate con una scusa e continuate per far macinare miliardi alle industrie belliche e ai signori della guerra; nel mezzo però ci sono milioni di persone che nei prossimi mesi si metteranno in marcia per cercare diritti, libertà, pace; parole che al giorno d’oggi sembrano sempre più anacronistiche. Intanto le responsabilità vengono rimpallate da una parte all’altra, quasi come se ci fossimo dimenticati del perché è iniziata questa guerra. Sono ancora pochi vent’anni per capire che produciamo disastri?

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