La rotta balcanica dei migranti

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Confine greco-turco
(Fonte: PanchoS per Wikimedia Commons)

Il nostro mondo si trova a convivere con un’emergenza senza precedenti e molti sostengono che, mai come prima d’ora, siamo tutti su una stessa barca. In realtà, sarebbe superficiale affermare che il Covid-19 ci rende tutti passeggeri di una stessa barca senza considerare che molte categorie non possono neanche avere libero accesso a questa barca figurata.

I richiedenti asilo ad esempio sono una delle categorie più vulnerabili e di difficile collocazione all’interno dell’attuale crisi mondiale. Dal 2015 ad oggi, seppur con l’attuale pandemia, la crisi migratoria non si è mai realmente interrotta. Ed anche se il virus preoccupa e spaventa l’Occidente, diverso è il caso di chi nonostante la paura non ha altra scelta che scappare, appena possibile, per cause diverse che vanno dalla guerra alla povertà fino alla violazione dei diritti umani di carattere collettivo o individuale.

Di conseguenza, mentre l’Europa rialza le proprie barriere esterne, come aveva già fatto nel 2016 mettendo fine al progetto di ricollocamento dei richiedenti asilo, la rotta balcanica torna a far parlare di sé con l’apertura dei confini turchi verso la Grecia. “La rotta balcanica” è stata per tanti anni uno dei percorsi più battuti da chi entrava a piedi in Europa dalla Grecia fino per arrivare in Austria e Germania superando Albania, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

Nel 2016 a limitare il passaggio illegale di migranti e richiedenti asilo attraverso la rotta balcanica fu un accordo di 6 miliardi di euro tra Turchia e Unione Europea, rinnovato due anni dopo. L’accordo prevede che Ankara blocchi l’enorme esodo dei migranti provenienti dalla Siria e da tutto il Medioriente; si prevede inoltre la creazione di nuove strutture per l’accoglienza in Turchia grazie a finanziamenti europei e il trasferimento di molti migranti residenti in Grecia all’interno dei confini turchi. Ai 6 miliardi iniziali è stato aggiunto un pacchetto di aiuti per la popolazione siriana costretta a scappare a causa dell’interminabile guerra, che vede tra gli attori principali proprio la Turchia. Negli obiettivi dell’accordo vi sono dunque quello di alleggerire il carico di richiedenti asilo residenti in Grecia, bloccare l’esodo siriano e frenare i migranti provenienti da tutto il Medioriente.

Di fatti la Grecia ha sofferto direttamente delle politiche europee derivanti dal regolamento di Dublino III a causa della presenza di diversi hotspot sul suo territorio. Un rapporto diffuso da Oxfam e Greek Council for Refugees (GRC) descrive le condizioni disumane e le discriminazioni di cui sono vittime uomini, donne e bambini, nei cinque campi allestiti dall’Unione Europea nelle isole greche, sottolineando che ad oggi il numero di migranti “ospitati” supera di sei volte le reali capacità di accoglienza. Dal rapporto si evince anche che nessuna delle attuali strutture greche, sia continentali che nelle isole, è in grado di far fronte alle due emergenze in atto: quella del sovraffollamento e quella del Covid-19. Nonostante la delicata instabilità greca, nel marzo scorso la Turchia ha riaperto i confini permettendo a 138 mila persone, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale Migrazioni (OMI), di muoversi verso l’Europa. Immediatamente la Grecia ha accusato Ankara di fare pressione sull’Europa per le proprie mire espansionistiche in Medioriente. Accuse respinte dal governo Erdoğan.

C’è da chiedersi per quale motivo Erdoğan abbia deciso improvvisamente di aprire i propri confini in un momento così delicato. Le ragioni sono da ricercarsi nel coinvolgimento turco in Siria. All’inizio del mese di febbraio, prima del cessate il fuoco pattuito tra la Russia di Putin ed Ankara, durante un’offensiva turca nel nord della Siria, 35 soldati turchi hanno perso la vita. La ragione dell’apertura dei confini potrebbe essere quindi considerata strategica. Da un lato, Erdoğan si trova da solo nella guerra contro la Siria; dall’altro, la sua idea espansionistica per la creazione di una “safe zone” nel nord della Siria si sta rivelando molto più difficile del previsto a causa dell’alleanza tra le milizie di Assad, i ribelli, i curdi e la Russia.

Secondo le stime dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR) la Turchia registra 3,5 milioni di siriani e 1 milione di altri richiedenti asilo e rifugiati provenienti da tutto il Medioriente.

La reazione greca all’apertura dei confini turchi non è stata delle migliori. In molti sono stati arrestati al confine con la Grecia o, nel migliore dei casi, respinti in Turchia. Appena presa consapevolezza dell’esodo, le autorità greche hanno diffuso messaggi a quelli appena entrati nel territorio nazionale, esortandoli a non oltrepassarlo altrimenti sarebbero stati arrestati. È seguita inoltre la militarizzazione dei confini esterni, tramite un’operazione congiunta dell’agenzia Frontex.

Successivamente, a causa dell’ingente numero di nuovi arrivati all’interno del territorio continentale, la Grecia ha annunciato il blocco dell’esame di tutte le richieste d’asilo per tutto il mese di marzo. A render nota la decisione è stato il premier Mitsotakis via Twitter. Il premier ha giustificato la decisone appellandosi all’articolo 78.3 del “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” (Tfue), articolo che regola la politica d’asilo in “situazioni di emergenza”. Invero, Atene non può sospendere il diritto riconosciuto a livello internazionale di chiedere asilo e il principio di non respingimento che sono ribaditi anche dal diritto dell’Ue; tale decisione può essere presa solo previa consultazione del Parlamento europeo.

Al momento la Grecia si trova, come tutta Europa, alle prese col Covid-19. Nell’isola di Lesbo si teme l’esplodere di un focolaio a causa dei nuovi arrivati dalla Turchia. Situazione analoga si riscontra in altre isole in cui l’UNHCR preme per il ricollocamento dei minori e delle categorie più vulnerabili. Nella Grecia continentale, invece, aumentano i casi di contagio nei campi, il più importante dei quali, quello di Ritsona, è al momento in quarantena. Il problema principale delle isole, ma anche dei campi continentali, è la mancanza di personale sanitario e di strutture adeguate a contenere questo tipo di emergenza.

Una situazione che amaramente ci ricorda quanto possa essere ancora più difficile, in un momento di profonda confusione e difficoltà, non essere neanche in grado di salire sulla fantomatica barca.

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