E ora?

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Certo, non mi spingerei mai ad asserire che la nostra attuale Presidente del consiglio possa essere paragonata al “Grande Fratello” di orwelliana memoria (detto sommessamente, non ne ha la capacità), ma chi si diletta nello studio della storia non potrà non rendersi conto che alla radice di ogni governo autoritario – e i governi di destra e di estrema destra certamente lo sono – vi sono piccoli passi iniziali che, con il trascorrere del tempo, ne rivelano la realtà liberticida. Ho trovato molto pertinente al riguardo il commento che Benedetto Croce, nel 1949, fece al famoso romanzo di Orwell: “Chi, come l’Orwell, ha guardato il mostro e non si è perso d’animo, e lo ha posto a sé, fuori di sé, oggetto di disamina e di critica, ha scritto il suo libro non certo per rendergli omaggio, ma per esortare a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa, e perché non si dimentichi mai che nella situazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana, perché il genere umano stesso soccomberebbe senza speranza di resurrezione”.

L’argomento della libertà è di fondamentale importanza per ogni abitante di questo pianeta, ecco perché, ancora una volta, ritorniamo a parlarne, e questa volta a maggior ragione in quanto abbiamo alle spalle, solo pochi giorni fa, l’esito delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, che ci hanno posto di fronte a una realtà che non possiamo e non dobbiamo ignorare: quella di un’ombra nera che avanza in Europa, e che ha colpito duramente in particolare due dei più importanti Stati fondatori dell’Unione, mettendo a rischio l’intero sistema democratico europeo. Francia e Germania hanno subìto un vero e proprio tracollo elettorale, una vera e propria débâcle che nel primo Paese ha visto la vittoria schiacciante del Rassemblement Nationale, il partito di Marine Le Pen, mentre in Germania il cancelliere Scholz è stato battuto dall’Alternative für Deutschland (AfD), un partito di estrema destra, così estremista e fuori controllo, che perfino la Le Pen ha dovuto cacciarlo dal gruppo europeo Identità e democrazia per le dichiarazioni farneticanti del suo capogruppo, Maximilian Krah, secondo il quale “non è vero che tutte le SS (Schutzstaffel, una sorta di polizia politica segreta) erano dei criminali”. Adesso dobbiamo attendere solo l’esito delle elezioni indette dal Presidente Macron per la fine di giugno, per vedere se i risultati delle elezioni europee saranno confermati da una vittoria politica definitiva del Rassemblement Nationale, oppure no. Confidiamo nella scelta giusta dei nostri “cugini” francesi, il cui motto nazionale pone la parola “liberté” al primo posto. Nel recarsi alle urne i francesi dovranno tenere in mente quali sono i principi fondanti sia del Rassemblement Nationale che dell’Alternative für Deutschland, ovvero il razzismo, la condanna degli omosessuali e dei trasngender, la negazione dell’Olocausto, il diritto di abortire, l’esistenza del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, l’uscita dalla moneta unica, l’antisemitismo, l’opposizione alla politica agricola comune, la negazione agli stranieri dell’assistenza sociale e di certi servizi pubblici. Sono molte altre le caratteristiche di questi due partiti politici, ma sono sufficienti quelle elencate per far comprendere dove ci porterebbe una loro presa del potere.

Ma adesso lasciamo francesi e tedeschi ai loro preoccupanti problemi e torniamo in Italia, dove il partito post fascista e post missino della Giorgia nazionale, è ancora una volta al primo posto e intende rimanervi il più a lungo possibile. Perché questo dovrebbe preoccuparci? Il motivo principale è, come abbiamo visto, che il fenomeno non riguarda soltanto il nostro Paese, ma anche nazioni che non si sarebbe mai e poi mai immaginato che potessero virare in quella direzione. A conferma di ciò ci piace citare l’autorevole e qualificato pensiero di Madeleine Albright, ex segretario di stato degli Stati Uniti e politica di vaglia. In un suo libro intitolato Fascismo: un avvertimento (chiarelettere, 2018) scrive: “Perché infine, a questo punto del ventunesimo secolo, si è tornati a parlare di fascismo? Uno dei motivi, a voler essere onesti è Donald Trump. Se si immagina il fascismo come una vecchia ferita ormai quasi rimarginata, eleggere Trump (e rieleggerlo) alla Casa Bianca è stato come strappare la benda e grattar via la crosta”. Parole pesanti ma ponderate, e pronunciate da chi per tutta una vita ha fatto della politica e della democrazia le sue linee guida. Una che è nata in Cecoslovacchia durante l’occupazione nazista e dovette fuggire in Inghilterra con tutta la famiglia. Qual è, secondo Albright, il movente principale che spinge popoli che godono da ottant’anni di pace, di prosperità, di libertà di stampa e di espressione, a rivolgersi al fascismo, all’estrema destra, di cui tutti, più o meno, conoscono i tristi trascorsi? È la paura. È proprio la paura a far sì che il fascismo parli a tutti gli strati della società. Nessun movimento politico può prosperare senza il sostegno popolare, ma il fascismo trae linfa in egual misura dalle fasce più ricche e influenti come da quelle più disagiate, da chi ha tutto da perdere, come chi non ha nulla.

“A partire da questa riflessione – continua Albright – abbiamo ipotizzato che il termine fascismo alluda più ai mezzi usati per conquistare e mantenere il potere che a un’ideologia politica vera e propria. Se si guarda all’Italia degli anni Venti, per esempio, poteva essere applicato sia ai sedicenti fascisti di sinistra (che invocavano una dittatura dei diseredati), sia alla destra (che sosteneva l’idea di uno Stato autoritario e corporativo). Il Partito nazionalsocialista tedesco si coagulò intorno a una serie di istanze antisemite, anti-immigrati, e anticapitaliste. Se il fascismo ha a che fare più con le modalità di accaparramento del potere che con un’ideologia specifica, quali sono, dunque, le tattiche adottate dai leader? I leader fascisti più noti erano figure carismatiche. Chi più chi meno, tutti instaurarono un legame emotivo con la folla, e come i guru di una setta fecero emergere impulsi profondi e spesso deleteri. Ed è così che i tentacoli del fascismo poterono farsi strada nelle democrazie. Il fascismo trae forza da uomini e donne sconvolti dalla guerra, dalla perdita del lavoro, da un’umiliazione subita o dalla percezione che il Paese stia precipitando verso un rovinoso declino. Più acuto è il malcontento, più facile è per un leader fascista ottenere consenso prospettando un cambiamento o la restituzione del maltolto”. In sintesi il pensiero di Albright sul fascismo può così compendiarsi: “Il fascista è qualcuno che pretende di parlare per un’intera nazione o un intero gruppo, si disinteressa dei diritti altrui e usa la violenza o qualsiasi altro mezzo per raggiungere i propri scopi”.

Il fascismo è una bestia camaleontica perché, come scrisse Primo Levi, “ogni paese ha il suo fascismo”. Come di recente abbiamo scritto, oggi non è più il tempo dell’orbace, del fez e di tutto l’armamentario folkloristico di quel funesto regime; ed è logico che sia così, perché il mondo è profondamente cambiato da quel tempo. Quelli che non sono cambiati sono gli italiani. In novant’anni di storia, dal 1922 al 2011, abbiamo avuto il Ventennio fascista e il quasi-ventennio berlusconiano; per poco meno della metà della nostra vicenda nazionale abbiamo scelto di farci governare da uomini con una evidente, e dichiarata, vocazione autoritaria. Perché? Una risposta possibile è che siamo un popolo incline all’arbitrio, ma nemico della libertà. Vantiamo record di evasione fiscale, abusi edilizi, scempi ambientali. Ma anche di compravendita di voti, qualunquismo: in poche parole una tendenza ad abdicare alle libertà civili su cui molti si sono interrogati.

No, ed è evidente: gli italiani non sono cambiati negli ultimi mille anni. Basta pensare a Dante, Guicciardini, Machiavelli, e alle loro invettive sul carattere nazionale per rendercene conto. Ma con un salto temporale in avanti, giungiamo al XIX secolo, quando il nostro grande poeta, Giosuè Carducci scrisse: “A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca del tutto l’idealità; la tradizione cioè delle tradizioni patrie e la serena e non timida coscienza che sole affidano un popolo all’avvenire. Ma religione non può esserci dove uomini e partiti non hanno idee o per idee si spacciano affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio l’abilità, e per abilità qualche cosa di peggio; dove tromba di legalità e alfiere dell’autorità è la vergogna sgattaiolante tra articolo e articolo del codice penale” (discorso pronunciato il 4 giugno 1882 al teatro Brunetti di Bologna). Più o meno nello stesso periodo, un altro illustre italiano, Massimo D’Azeglio, ne I miei ricordi, scriveva: “L’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte contro lo straniero, come contro i settari all’interno finché ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere … Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuole forza di volontà, e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere onde, per dirlo con una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino italiani dotati di alti e forti caratteri”.

In questo articolo la parola libertà appare molte volte. Il problema da affrontare adesso è: cosa intendono gli italiani per libertà? Per molti nostri connazionali di oggi e di ieri, libertà non è il diritto inviolabile di dire, pensare, scrivere, senza restrizione alcuna, com’è sancito nel Primo Emendamento della Costituzione americana, e dall’articolo 21 della nostra Costituzione. No, non è quello. Infatti, agli occhi degli stranieri che visitano il nostro Paese, la libertà straripa. Molti costruiscono dove sarebbe (sarebbe, condizionale) proibito, molti non rispettano i semafori perché si annoiano ad aspettare il verde, molti non pagano le tasse perché quei soldi è meglio tenerseli (d’altra parte, il governo è “ladro”, per cui …), molti parcheggiano dove gli viene più comodo, perché tanto è questione di un minuto, molti gettano i rifiuti sulla strada, sulla spiaggia, nei boschi, insomma, dove capita.

Come vediamo, quindi, “libertà” è un concetto con molteplici accezioni. Sembrerà strano, ma una delle migliori definizioni la dobbiamo a Giorgio Gaber, secondo il quale “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”. Non sappiamo se Gaber avesse letto Gramsci, ma certo vi è una straordinaria assonanza fra i due e con ciò che Gramsci scriveva in Passato e presente sulla cattiva qualità dell’individualismo italiano: “Questo individualismo è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva … significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? … Niente affatto. Significa che al partito politico o al sindacato economico «moderni» … si preferiscono forme organizzative di altro tipo e precisamente di tipo «malavita», quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legati alle classi alte”. (Einaudi, 1951). Da quando Gramsci scrisse queste parole significative è passato poco meno di un secolo e, in un certo senso, sono state riprese da Maurizio Viroli, il quale scrive che esistono due distinte libertà, la libertà dei servi e la libertà dei cittadini: “La libertà dei servi o dei sudditi consiste nel non essere ostacolati nel perseguimento dei nostri fini. La libertà del cittadino consiste invece nel non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo o di alcuni uomini. Poiché in Italia si è affermato un potere enorme, siamo – per il solo fatto che tale potere esiste – nella condizione dei servi” (Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Bari-Roma 2010).

In passato abbiamo scritto che l’Italia è il paese dei condoni; ovvero puoi violare la legge deturpando un Paese che non è solo il tuo, ma anche di tutti gli altri. Retaggio, questo, del cattolicesimo all’italiana nel quale basta andare dal prete a confessarsi, per ricevere un perdono pieno e completo: “Ego te absolvo a peccatis tuis”, tre ave Marie e un Pater Noster. E questo nostro spirito un po’ anarchico e un po’ perdonista, non ci fa rendere conto, o non vogliamo rendercene conto, che i piccoli (o grandi) gesti di libertà o di disobbedienza citati più sopra, sono in realtà atti di arbitrio, piccoli gesti di quotidiana anarchia, licenze e abusi che non preoccupano chi detiene il potere. L’essenza della democrazia è da cercare negli equilibri, tra istituzioni e tra individui, che sorreggono la legalità; in Italia invece sembra spesso che sia vero il contrario: una diffusa violazione delle norme sostituisce il loro rispetto. Non è solo la (cattiva) politica a sabotare la democrazia ma anche una parte consistente dei cittadini. D’altra parte se non ci fosse una base di consenso piuttosto ampia, la politica non si permetterebbe di fare ciò che spesso fa. Il potere utilizza queste manifestazioni d’insofferenza verso le regole come una valvola di sfogo che aiuta a distogliere l’attenzione da problemi più seri, evita gesti più consapevoli di autentica indignazione, o rivolta, eguaglia tutti nell’insolvenza davanti alla legge.

Libertà, quindi, intesa come possibilità di fare i propri comodi ad libitum trascurando le regole, ignorando la libertà degli altri, non è altro che la libertà dei servi. Ritornando ancora a Gramsci, questa mente eccezionale, purtroppo spentasi prematuramente, nel suo saggio aveva individuato con nettezza il carattere di fondo di questa falsa libertà quando analizza “l’antistatalismo” ovvero il “sovversivismo primitivo ed elementare” cui si assiste così di frequente in Italia. “Naturalmente nelle classi popolari, cioè nelle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire “corporativo”, economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine «consorteria»”.

Noi italiani non ragioniamo con la mente, ma con la “pancia”; siamo portati a unirci alle folle osannanti senza rifletterci troppo e, di conseguenza, facciamo emergere chi sa parlare meglio di altri alla “pancia”, piuttosto che alla mente. Un esempio pertinente mi sembra possa esser fatto riguardo alle celebrazioni osannanti a un anno dalla morte del “Silvio nazionale” del quale si vorrebbe la “santificazione”. Se si leggono i due grandi quotidiani italiani, Il Corriere della Sera e la Repubblica del 13 giugno scorso, ci si rende conto di come sia facile addomesticare la pubblica opinione, presentando di un uomo che ha rovinato l’Italia, un ritratto che lo accomuna a Padre Pio, alla Madonna di Fatima e molto di più che al Papa. Un uomo che, pur essendo dichiaratamente cattolico, era un pluridivorziato, uno “sciupafemmine”, uno spudorato bugiardo, un Narciso innamorato di sé stesso. Così spregiudicato da mentire al Parlamento nel caso della “nipote di Mubarak”, e così al di sopra delle leggi da tenersi in casa come “stalliere”, un dichiarato mafioso. A lui si vorrebbero intitolare strade, vie, piazze, e in tal caso sarebbe opportuno intitolarne una “via del postribolo”.

Adesso “lui” non c’è più, come non c’è più nemmeno l’altro “lui”. Adesso abbiamo una “lei” che, senza farcene accorgere, ci sta pian piano portando all’indietro nel tempo, sdoganando il regime più nefasto della nostra storia, con una sorta di moral suasion che si nasconde dietro le sue smorfiette, il suo aspetto da ragazzina sbarazzina e birichina, di cui nessuno potrebbe mai aver paura.

Questo clima di celebrazioni postume con la promessa di un futuro migliore che solo “lei” saprà realizzare, mi riporta alla mente un altro grande pensatore, anche lui prematuramente scomparso, Étienne de la Boétie, con il suo Discorso sulla servitù volontaria. La tesi di fondo del libro è semplice: i tiranni hanno molto potere solo perché i sudditi gli consentono di esercitarlo. In una società corrotta, dice de La Boétie “molti finiscono per preferire i comodi del cortigiano alle libertà dei cittadino che possono essere faticose, richiedono costante vigilanza e impegno; e una delle ragioni per questa scelta è che il tiranno è capace di suscitare una specie di innamoramento collettivo nei suoi confronti per cui si vedono “Migliaia di uomini asserviti miseramente, con il collo sotto giogo, non perché costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno” (Meno male che Silvio c’è!).

Quello che abbiamo scelto di trattare è un argomento vastissimo che, però, riguarda tutti noi che viviamo “nel bel paese, là dove ‘l sì suona”, e non mancheremo di ritornarci, anche perché soltanto i mesi seguenti potranno rispondere alla domanda di questo articolo “E ora?”. Cosa accadrà a un mondo che ha perso la bussola e parla sempre più spesso di guerra nucleare, un mondo in cui la cappa dell’intolleranza, dell’antisemitismo, del razzismo, sembra scendere inarrestabile su di noi. Ecco perché mi pare del tutto appropriato concludere con le parole di un grande italiano, Luigi Barzini, che dedicò un intero volume al carattere dei suoi connazionali. In esso egli diceva: “Questo libro è dedicato a tutti gli italiani illustri e sconosciuti che hanno speso la vita, si sono sacrificati e sono morti perché l’Italia non fosse com’è. Questo libro è dedicato a tutti coloro che vogliono vedere l’Italia liberata finalmente da tutte le sue sventure (Luigi Barzini, Gli Italiani, Mondadori, 1964).

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