Riflessioni sul voto in Europa

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Riceviamo dal lettore Carlo Malpenso e volentieri pubblichiamo.

Con un’affluenza al 49,6% queste tornate elettorali europee, che eleggono i rappresentanti italiani per il Parlamento europeo di Bruxelles per i prossimi quattro anni, disegnano lo scollamento dei cittadini italiani verso la politica nazionale ed europea, visto l’astensionismo altissimo.

Il partito di governo, Fratelli d’Italia (FdI), cresce e guadagna punti rispetto alle consultazioni politiche del 25 settembre 2022, sfiorando il 29%, e questo è frutto del “referendum” plebiscitario lanciato non tanto sul programma, ma sulla persona, sulla premier “Giorgia”, una campagna personalistica – tipica della politica post-ideologica dagli anni Ottanta in avanti – che ha portato fortuna alla leader di FdI, che ha superato i 2milioni di preferenze, a guidare il primo partito d’Italia nel Parlamento Europeo, caso unico nel panorama continentale, dove i partiti di governo hanno perso consensi, come in Francia.

Altro dato interessante è l’avanzata del Partito Democratico (PD), che supera il 24% – cosa che non accadeva ormai da anni – con il consolidamento della leadership gauchista di Elly Schlein, anche se, va detto, tutto va rapportato sulla base dell’astensionismo.

Ma è nel centrodestra la lotta sul secondo posto, dato che Forza Italia – Noi Moderati, alla prima prova elettorale dalla scomparsa del fondatore Silvio Berlusconi, arriva al 9,7%, superando la Lega di Matteo Salvini, che prende il 9,1% e riesce a reggere per l’“effetto Vannacci”, che porta a casa ben 500mila voti (e nel Nord-Ovest circa 180mila), mentre il Movimento Cinque Stelle (M5s) scende sotto una percentuale a due cifre (9,9%), penalizzato dalla bassa affluenza al Sud e nelle Isole (rispettivamente al 43,7% e al 37,7% contro una media nazionale che ha toccato il minimo storico al 49,69% contro il 54,5% del 2019), dove il partito di Giuseppe Conte è stato per tradizione più forte, con una percentuale che lo avvicina a Forza Italia (FI), spingendo l’ex premier Conte, davanti al risultato deludente, ad aprire una “riflessione”. Infatti è il M5s a essere colpito maggiormente dall’astensionismo. Secondo l’analisi dei flussi del voto di Swg Radar, il 35% degli elettori che nel 2022 avevano votato il M5s non ha votato. Percentuale che scende al 30% per Azione-Italia Viva, al 26% per FI, al 25% per FdI, al 24% per il PD, al 23% per la Lega e al 22% per Alleanza Verdi Sinistra (AVS).

Quest’ultima forza progressista, Alleanza Verdi Sinistra, ha avuto – a differenza delle altre formazioni ecologiste in Europa – una buona affermazione, piazzandosi sopra il 6,6%, e portando Ilaria Salis a Strasburgo con 170mila preferenze, di cui 120mila nel Nord Ovest e 50mila nelle Isole. Su altro versante abbiamo avuto il crollo delle liste centriste liberal-liberiste di Renzi e Bonino, cioè Stati Uniti d’Europa (col 3,7%), e della lista Siamo europei (3,3%) di Carlo Calenda, non superando la soglia di sbarramento del 4% prevista dalle elezioni europee e non manderanno alcun europarlamentare a Bruxelles.

Il risultato alle europee è stato anche influenzato da altri aspetti: la Meloni guadagna con l’elettorato euroscettico per vari motivi, ad esempio non aver sostenuto il governo Draghi – e molti collegheranno tale esecutivo con scelte discutibili e divisive come il green pass –, e appena insediata a Palazzo Chigi, il non aver ratificato il trattato pandemico internazionale dell’OMS – che istituiva il cosiddetto green pass globale – e il non aver firmato il MES, tutti atti interpretati dall’elettorato conservatore meloniano come una netta controtendenza verso i cosiddetti “poteri forti”. Lo stesso dicasi, nonostante l’atlantismo dell’esecutivo, della scelta meloniana di stare senz’altro con Kiev, ma di scongiurare l’eventuale escalation perché la NATO non sarebbe in guerra con Mosca. Questa è la posizione dell’esecutivo, con sfumature diverse tra i leader del centrodestra, con figure come la presidente del Consiglio, il ministro degli esteri Tajani e Matteo Salvini che sostengono un deciso sì all’invio di armi, ma non all’eventuale invio di soldati italiani in Ucraina. Partiti come il M5s e la Lega, invece, pagano davanti all’elettorato antisistemico l’appoggio all’esecutivo Draghi e la scelta di Conte di puntare tutto sulla pace – dopo l’iniziale invio di armi votato all’inizio del conflitto – e le parole di Salvini contro Stoltenberg non li hanno aiutati.

In estrema sintesi, cosa ha influenzato il voto di sabato e domenica? I motivi sono molteplici: l’astensionismo è senz’altro indice di un profondo scollamento dei cittadini dalle istituzioni europee, dato che meno di un italiano su due si è recato alle urne. Un risultato negativo storico, visto che per la prima volta in una elezione nazionale la soglia del 50% è stata sfiorata ma non raggiunta. Quello dell’astensionismo crescente è un fenomeno in corso da decenni in molti paesi e riguarda un po’ tutti i tipi di elezione. Nella Prima Repubblica si astenevano dal voto minoranze attive che non rappresentavano l’italiano medio, come gli anarchici, gruppuscoli marxisti extraparlamentari, in un’occasione i neofascisti di Ordine Nuovo facendo una campagna per la “scheda bianca” e i testimoni di Geova, noti per la “neutralità cristiana”. Ma in genere, fino al 1979, in Italia l’affluenza elettorale superava il 90%, e passò in quell’anno all’82%. Da allora iniziò a scender sempre di più, non smettendo di diminuire, e guarda caso il fenomeno inizia dopo la stagione dei governi di “solidarietà nazionale” – cioè governi di larghe intese –, e con l’inizio del riflusso e la fine del cosiddetto “lungo ‘68”, caratterizzato da una percezione della militanza politica intesa in termini totalizzati, ed è da quell’anno che iniziano a manifestarsi i primi malesseri populisti, con la nascita, al fianco di altri partiti che chiedevano un voto in cambio di alternativa al “regime democristiano” come il MSI-DN, i radicali o Democrazia Proletaria, delle leghe regionali da cui nascerà la Lega Nord, degli ecologisti verdi e altri movimenti che sdoganeranno l’antipolitica, in ultimo il M5s e la galassia dissidente no-euro e no-vax nata durante la pandemia da Covid-19. Dalle europee del 1979 la partecipazione degli italiani alle europee è sempre calata ad eccezione del 2004 (le prime con l’euro), quando si recò alle urne il 71,7% degli aventi diritto contro il 69,8% del 1999. L’astensionismo italiano alle europee è cresciuto fra le elezioni del 1989 e quelle del 1994 e in appena un lustro l’Italia passò da un’affluenza dell’81,1% a quella del 73,6%. Va detto che in mezzo vi fu lo scandalo di Tangentopoli, che segnò l’immaginario collettivo nazionale favorendo lo scollamento di una grossa fetta degli italiani dalle istituzioni repubblicane ed europee. Nelle elezioni europee più recenti, quelle del 2019, votarono il 54,5% degli elettori italiani, di più che alle europee 2024, anche se in Italia si votò solo di domenica.

Ma una cosa è certa: parlando dell’Italia per le europee hanno votato di più gli italiani delle regioni ricche, mentre l’affluenza crolla tra le regioni più povere e nei piccoli centri. Secondo le stime di YouTrend, in media nei comuni dove si votava solo per le europee l’affluenza è stata del 42,2%, mentre dove si votava sia per le europee che per le amministrative è stata del 62,8%. Nell’Italia Nord-Occidentale la partecipazione è stata del 55,1%; nell’Italia Nord-Orientale ha votato il 54% degli elettori; l’Italia Centrale ha avuto un’affluenza che ha raggiunto il 52,5%; il Meridione vede solo il 43,7% degli aventi diritto recarsi alle urne. Sembra col tempo confermata la tesi elaborata dalla socialdemocrazia tedesca negli anni Ottanta, della “società dei due terzi”, quando la SPD – negli anni dell’avvento della Thatcher e di Reagan e della “fine delle ideologie” ipotizzata sin dal 1960 dal politologo statunitense Daniel Bell nella sua dirompente opera The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, ma che si manifestò però come egemonia di un’ideologia, quella liberal-democratica e di mercato su quella della tradizione di sinistra – sancì la messa in discussione dei valori classici della sinistra tradizionale occidentale ipotizzando per il futuro una società dove due terzi partecipano alla vita democratica, mentre un terzo viene sacrificato, e non si cerca di recuperarlo, perché incredulo della possibilità che il voto posso emanciparlo.

La situazione europea, però, se da una parte convalida l’assetto italiano – il continente si sposta più a destra rispetto al 2019 – dall’altra vede forze di opposizione avere ottimi risultati contro le forze di governo di centrosinistra, centrodestra o centriste. Anche se è probabile la tenuta del vecchio asse popolar-socialista-liberale nel governo dell’Ue con la Commissione europea, è evidente che quest’ultima, qualora ci fosse la possibilità per rieleggere Ursula von der Leyen ai vertici della Commissione, dovrà tenere conto del fatto che tale asse tiene fino ad un certo punto.

Per quanto riguarda l’astensionismo, i dati non sono differenti: il record si registrò nel 2009 e nel 2014 con un tasso di partecipazione al voto vicino al 43% (42,97% e 42,61%), e l’affluenza superò il 50% solo in sette paesi, mentre il calo maggiore si registrò fra le europee del 1994 e quelle del 1999, quando l’affluenza passò dal 56,7% al 49,5%. Dal 1999 in poi, quindi, la maggioranza assoluta dei cittadini europei ha disertato le urne. Certo, bisogna anche ricordarsi che dal 1979 a oggi l’Europa politica è cambiata com’è cambiata la sua popolazione, vista la crescita di stati che vi hanno aderito, ma è un dato significativo.

Infatti, sull’onda del successo della destra lepenista del Rassemblement National di Marine Le Pen e del giovane delfino Jordan Bardella – a capo di un partito sovranista erede del Front National fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen, che da un po’ di anni fa sua la retorica sovranista del generale Charles De Gaulle, forte nella società civile francese –, che prende il 31% dei consensi, il presidente francese Emmanuel Macron – con la lista macroniana di Valerie Hayer che prende il 14,5% – ha dovuto sciogliere il Parlamento nazionale convocando le elezioni anticipate per il 30 giugno – 7 luglio, una batosta che è grave perché la destra è addirittura andata divisa, e Reconquête, l’altro partito di estrema destra guidato da Eric Zemmour, rappresentato da Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen ma alleata di Giorgia Meloni al Parlamento europeo, arriva al 5,5%. “Non posso fare come se non fosse successo nulla”, ammette il presidente della Repubblica rivolgendosi alla nazione. La Francia andrà così al voto; al terzo posto la coalizione socialdemocratica PS-Place publique di Raphael Glucksmann ottiene il terzo posto con il 14% dei voti, seguita dai sovranisti di estrema sinistra de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e Manon Aubry, leader del gruppo della sinistra radicale al Parlamento europeo, raccoglie il 10,10%, dai Repubblicani gaullisti di Francois-Xavier Bellamy al 7,20% e dai verdi, con Marie Toussaint, al 5,2%. “Siamo pronti a governare”, dice una raggiante Marine Le Pen, pregustando il risultato alle europee, al fianco del delfino Bardella. Il Rassemblement National è “pronto ad esercitare il potere se i cittadini ci daranno la fiducia”, pronto a “difendere gli interessi dei francesi, a mettere fine a quest’immigrazione di massa, a fare del potere d’acquisto dei francesi una priorità, a lanciare la reindustrializzazione della Francia”, e rivolgendosi a Bruxelles dice: “Questo è il ritorno delle nazioni, della protezione, dei popoli che vogliono restare tali”. Le parole sembrano eversive, ma è il sovranismo del generale De Gaulle riattualizzato, una formula elaborata dall’uomo che nel 1966 ruppe col comando unificato della NATO parlando di “Europa delle Nazioni” contro l’“Europa dei tecnocrati”, e che il moderno centrodestra francese ha dimenticato.

In Germania il semaforo rosso-verde-giallo, com’è chiamata la coalizione socialdemocratica-verde-liberale del cancelliere Olaf Scholz, è stato spento da un voto che proietta i sovranisti dell’ultradestra di Alternative für Deutschland al secondo posto, superando i socialdemocratici, dietro una CDU che si conferma perno della liberal-democrazia tedesca; interessante – come in Francia il 10% dei sovranisti di estrema sinistra di Mélenchon che fanno intender che il tema della sovranità nazionale non è esclusivo appannaggio della destra – il risultato del partito populista tedesco di sinistra di Sahra Wagenknecht al 6,2%, europarlamentare e deputata del partito tedesco di sinistra postcomunista Die Linke dal 2009, che da gennaio 2024 è leader di BSW Bündnis Sahra Wagenknecht (cioè Alleanza Sahra Wagenknecht) nato da una scissione di Die Linke (che a questa tornata è finito sotto il 3%).

Politici come Macron e Scholz, al di là dei giudizi di Putin e Medvedev, oggettivamente pagano per le loro politiche belliciste che non si limitavano alla richiesta di aiuti bellici a Zelensky, ma addirittura all’eventuale invio di soldati NATO in Ucraina, cosa che avrebbe favorito un’escalation, come ha ribadito più volte Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa, con un pressing sul leader tedesco Scholz per i missili Taurus a Kiev, o Macron che in un colloquio televisivo tenutosi a metà marzo ha ribadito che ufficialmente Francia e NATO “non sono in guerra con la Russia, ma non dobbiamo lasciarla vincere”, dicendo che “si assume la responsabilità” delle sue parole sul possibile invio di truppe in Ucraina, e affermando che ”abbiamo messo troppi limiti al nostro vocabolario”, ma “abbiamo un obiettivo: la Russia non può e non deve vincere”. Un pressing iniziato a febbraio e che si è concluso, poco prima del voto, con la scelta degli USA e di altri paesi europei, Francia e Germania in testa, di permettere l’invio di missili per colpire il territorio russo. Scelta non gradita dall’elettorato moderato-progressista franco-tedesco, che senz’altro non è putinista, ma non sarebbe favorevole all’espansione del conflitto che da locale non deve diventare continentale.

Se da una parte oggettivamente la maggioranza popolar-socialista-liberale regge in Commissione europea, dall’altra il voto ha inferto un duro colpo ai leader di Francia e Germania, e la cosa non può lasciare indifferenti i vertici continentali. Lo spostamento a destra del Parlamento Europeo potrebbe render più difficile l’approvazione di leggi necessarie per rispondere alle sfide alla sicurezza continentale, all’impatto del cambiamento climatico o alla concorrenza industriale della Cina Popolare e degli Stati Uniti.

Riuscirà la nuova Commissione a governare in questi termini? E come tali risultati influiranno sulle scelte statunitensi nel conflitto russo-ucraino?

Carlo Malpenso

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