Il mito del Risorgimento

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Lontano dalla retorica idealista che ha fatto del Risorgimento italiano un affresco storico popolato di eroi e martiri, la recente storiografia ci restituisce un quadro diverso. La guerra per l’annessione e la successiva piemontesizzazione del meridione del Paese non sono solo chiacchiere da circolo lealista filo borbonico ma il frutto di una verità storica taciuta per troppo tempo: “lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti” – Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1920. 

“In mille partirono da Quarto per liberare il Sud dal vile oppressore ecc. ecc.”, una favola raccontata per anni ma mai divenuta realtà. La spedizione dei mille fu tutt’altro che improvvisata e mal equipaggiata, anzi. Il padre della patria, Mazzini, esule in Inghilterra, aveva stretto alleanze importanti con molti finanziatori vicini alla massoneria. Parte di quei fondi che servirono per armare la spedizione garibaldina arrivavano proprio dai commercianti inglesi di zolfo e salnitro (indispensabili allora per la preparazione della polvere da sparo). Materie prime che si trovavano in abbondanza sull’isolotto ferdinandeo riaffiorato dal mare nel 1831 al largo di Sciacca. Precedentemente allo sbarco si era provveduto alla corruzione degli ufficiali borbonici al comando dei trentamila uomini di stanza sull’isola. Anche i mafiosi, forza occulta presente capillarmente sul territorio, vennero foraggiati soprattutto per evitare le rivolte contadine ed i linciaggi dei “fratelli liberatori”, come già avvenuto nel caso dello sbarco capitanato dai fratelli Bandiera. 

Nella Sicilia liberata Garibaldi istituì una dittatura militare nel nome di Vittorio Emanuele re d’Italia, promettendo ai contadini di donare loro le terre strappate alla nobiltà latifondista in cambio della loro insurrezione contro le vecchie istituzioni. Promesse puntualmente disattese che sfociarono in rivolte represse barbaramente nel sangue. Uno dei casi più noti, anche grazie alla novella di Giovanni Verga “Libertà”, è quello di Bronte. La piccola città alle pendici dell’Etna, il 2 agosto 1860, fu teatro dell’insurrezione popolare che sfocio nell’omicidio di 16 persone e nell’incendio di parte dell’abitato. Le vittime furono il feudatario e la sua famiglia. Garibaldi, per punire i rivoltosi, inviò sul luogo un battaglione comandato da Nino Bixio. Il tribunale misto di guerra, in un frettoloso processo durato meno di quattro ore, giudicò ben 150 persone e condannò alla pena capitale l’avvocato Nicolò Lombardo insieme con altre quattro persone: Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi. La sentenza venne eseguita mediante fucilazione l’alba successiva. Come monito, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Diverse furono le repressioni ad opera di Bixio, per riassumerle basterà la frase di un suo sodale: «Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò muoversi» (Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille).

Garibaldi, il 7 settembre, entrò a Napoli seduto comodamente in treno, senza sparare un colpo, con pochi uomini al seguito. Ad accoglierlo Liborio Romano, Ministro di Polizia, e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”. Dal balcone di Palazzo Doria D’Angri proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo. I “capi intriti” (ras) della camorra erano schierati in prima fila con la coccarda tricolore. Lo storico Francesco Benigno, nel suo saggio La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878, (Torino, Einaudi 2015), racconta come il ministro Liborio Romano “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino assicurando l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata” (Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri).

La camorra, schierandosi apertamente al fianco dei “liberatori”, assicurò il mantenimento dell’ordine tenendo a freno la folla scalmanata della capitale duosiciliana. Inaugurando così di fatto quel dialogo ininterrotto tra lo Stato e le mafie che, in altre forme, perdura ancora oggi. Paolo Mieli, nel libro In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia” (Rizzoli, 2017), aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1860, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali”. Dopo l’unità italiana le mafie diverranno, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia del nostro Paese.

Successivamente alla completa annessione del meridione, le condizioni di vita nell’ex regno borbonico (già non floride) peggiorarono ulteriormente. La gran parte dei militari borbonici, che rifiutarono l’arruolamento nelle fila dell’esercito unitario, furono arrestati e deportati nelle carceri lagher sulle Alpi (San Maurizio Canavese e la fortezza di Fenestrelle su tutte). Racconta Gigi Di Fiore: “A centinaia però non riuscirono a tornare dai campi del nord, dove trovarono la morte. A Fenestrelle, la calce viva distruggeva i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta a superare il rigore del freddo ed a sopportare la fame … L’ospedale della fortezza era sempre affollato. E, nei registri parrocchiali, vennero annotati i nomi dei soldati meridionali deceduti dopo il ricovero in quella struttura sanitaria … Ma i nomi registrati non corrispondevano a tutti i prigionieri morti in quegli anni. Per motivi igienici ed essendoci difficoltà a seppellire i cadaveri, molti corpi vennero gettati nella calce viva in una grande vasca, ancora visibile, dietro la chiesa all’ingresso principale del forte”.

Erano tanti i preconcetti dei padri della patria nei confronti dei regnicoli meridionali. Nel 1864 il celebre politico Massimo d’Azeglio scrisse: «Si è fatta l’Italia senza averla mai studiata né conosciuta. Ora scontiamo noi l’ignoranza di Cavour delle varie parti della penisola. Voler agire su un Paese senza averlo neppure veduto». In effetti, fino a quel momento, la maggior parte dei politici piemontesi non aveva mai visitato le regioni del Sud. Persino Camillo Benso, conte di Cavour, che si vantava di aver viaggiato in lungo e in largo per l’Europa, non si era mai spinto più a sud di Firenze, oltre l’Arno non andò mai. E al ritorno disse al suo segretario: «Meno male che abbiamo fatto l’Italia prima di conoscerla». Il 6 novembre 1860 Luigi Carlo Farini viene nominato da Vittorio Emanuele II “Luogotenente generale delle provincie napoletane”; in un dispaccio inviato il 27 ottobre al presidente del Consiglio, scrive: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile!»

Negli stati del ex regno si verificarono avvenimenti che portarono verso la guerra civile. La delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall’accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini. In diverse regioni contemporaneamente, ex soldati, renitenti alla leva obbligatoria (le nuove leggi imponevano 5 anni di ferma), sbandati si radunarono in bande armate. Improponibili in campo aperto, scelsero la guerriglia per colpire le armate piemontesi.

Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché, nel 1863, ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell’esercito italiano. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari, fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell’opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo Stato aveva vinto la sua guerra. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell’Italia non fece che approfondirsi. Per dare una chiosa a questo breve excursus sui fatti che seguirono l’unità d’Italia, citerò a memoria un piccolo paragrafo dal libro Fascismo e Populismo di Antonio Scurati che scrive: Nel lessico della lingua tedesca esiste una parola composta, coniata appositamente per descrivere il lungo processo di riflessione critica condotto dai tedeschi del dopoguerra sulle terribili colpe del nazismo e, in parte, anche la lenta, faticosa emancipazione dal senso di colpa per i crimini di esso: Vergangenheitsbewältigung, traducibile letteralmente con “superamento del passato”. Nella lingua italiana non c’è nessuna locuzione analoga. A mio modo di vedere, il motivo è che quel processo di superamento del passato, pur avviato, non si è mai compiuto. Le ragioni sono, come sempre in questi casi, numerose e peculiari della nostra storia politica.

2 commenti su “Il mito del Risorgimento”

  1. Raffaele Catania

    L’articolo offre una comprensione più completa e sfumata della storia italiana, dimostrando come la revisione critica del passato sia fondamentale per affrontare le complessità del presente … purché ci sia la volontà di farlo.

    1. Antonio Nacarlo

      Sicuramente Raffaele sarebbe auspicabile ma, di fatto, non ci sarà mai un vero processo di divulgazione. Storici mainstream come Barbero continuano a negare gli eccidi (vedi il caso dei carceri lager come Fenestrelle) pur difronte agli atti prodotti da fonti terze (dati censori e atti estrapolati dagli archivio dell’amministrazione sabauda). Essere tacciati di nostalgici o lealisti borbonici è la prassi comune. Proprio perché crediamo nella Repubblica Italiana e quelli della nostra generazione hanno giurato di difenderla e onorarla, il processo di revisione non deve essere, com’è attualmente, argomento di nicchia, deve arrivare nelle scuole, essere raccontato ai bambini dell’intera nazione, altrimenti rimarrà lettera morta.

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