Un politico proteiforme

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Giuseppe Conte nel 2019 (Fonte: Wikipedia)

Quando comparve sulla scena politica, come un coniglio tirato fuori dal cilindro di Beppe Grillo, Giuseppe Conte era un damerino elegante, non bello ma interessante, con un naso appena un po’ lungo che un po’ insospettiva perché ricordava quello di Berlusconi. Da allora sono passati un po’ di anni durante i quali il Nostro ha potuto mostrare le sue non comuni virtù camaleontiche. Nella sua prima versione impersonò, dignitosamente, la figura del premier improvvisato ma diligente: tutti lo ricordiamo mentre, seduto al centro dei banchi del Governo, chiedeva sommessamente lumi al più scafato Di Maio, già vicepresidente della Camera. Mesi dopo, superata la fase dell’apprendistato, mostrò un coraggio insospettato nello scaricare Salvini ancora fresco di mojito.

La presidenza del suo secondo Governo ci propose un Conte più disinvolto anche perché il suo nuovo alleato, il PD, era a lui più vicino o comunque meno lontano della Lega: ebbe a dire che il suo cuore batteva a sinistra. L’esplosione dell’epidemia di Covid costituì per Conte un vero e proprio battesimo del fuoco: come se la sarebbe cavata il poliedrico “dandy” con una tragedia epocale di tale portata? La tenuta di Conte (e del suo Governo a partire dal ministro della salute Speranza) fu sorprendentemente solida tanto da meritarsi il plauso della comunità europea per l’efficacia delle misure adottate e per i risultati ottenuti. Questo successo contribuì alla conquista da parte del Premier di un ingente ed insperato finanziamento per il PNRR, al quale probabilmente non fu estranea la sua capacità seduttiva: difficile sottrarsi al fascino emanato da un gentiluomo dall’aspetto rassicurante con tanto di impeccabile “pochette” nel taschino della giacca.

Conte dovette però dismettere la veste da premier che tanto gli donava, a seguito del colpo di mano con cui Renzi provocò la caduta del Governo giallo-rosso col pretesto di favorire la nascita del governo tecnico di Mario Draghi, altro gentleman ma di ben diverso prestigio e caratura tecnica. A Conte toccò assumere un nuovo profilo, quello del capopartito in coabitazione con Di Maio ma nella casa di Grillo. Come tutte le convivenze difficili anche questa però non durò a lungo: già un po’ riottoso nel sostegno al governo, Conte fu preso in contropiede da Di Maio che formò all’interno della maggioranza di governo una sua corrente, più convintamente filogovernativa. Nella casa dell’“Eletto fondatore” rimase il solo Conte, al quale spettò il compito di rinverdire i valori originari del Movimento anche per le resistenze di Draghi a venire incontro alle aspettative dei pentastellati. E allora Conte dovette puntare i piedi interpretando il ruolo del secondo di bordo che minaccia l’ammutinamento se il comandante non cambia rotta cioè, fuori dalla metafora nautica, se non ritira almeno il progetto di costruzione dell’inceneritore della Capitale. Permanendo il diniego, non restava altro che uscire dalla maggioranza nella consapevolezza che il governo sarebbe caduto, visto che Forza Italia e Lega non attendevano altro per potersi unire a Fratelli d’Italia che, stando all’opposizione, era cresciuto in maniera significativa facendo intravedere una probabile vittoria alle elezioni anticipate che si andavano profilando.

Non è dato sapere se Conte e Grillo abbiano valutato i rischi che il Paese avrebbe potuto correre sotto la probabile guida della Meloni né si può escludere che l’uscita di Conte dalla maggioranza fosse motivata anche da una sorta di invidia nei confronti di Draghi, maturata in chi aveva per ben due volte consecutive rivestito la carica di premier. La possibilità di un ritorno di Conte alla guida del Paese dipendeva però esclusivamente dall’alleanza col PD, partner collaudato nel governo Conte 2, circostanza che però non si realizzò per la nota serie di veti incrociati tra Letta, Conte, Calenda e Renzi.

Perse le elezioni, molti a sinistra si sarebbero attesa una scissione nel M5S: da un lato i duri e puri, emanazione fedele del Grillo garante, e dall’altro quelli che avevano provato a governare sul serio pur avendo partecipato all’approvazione dello strampalato reddito di cittadinanza e dello sconsiderato bonus 110%. Sarebbe toccato a Conte, che si portava dietro l’esperienza acquisita ed un notevole prestigio personale, capeggiare questa fetta del Movimento: tutti ricordiamo come, uscendo da Palazzo Chigi dopo la cerimonia del campanello, l’ormai ex Premier fu accompagnato, mentre attraversava il cortile, dagli applausi del personale affacciato alle finestre. Non fu così, non ci fu alcuna scissione ma, sorprendentemente, consegnato serenamente il Paese nelle mani della destra, Conte si inventò leader della sinistra più radicale e intransigente.

È forse da allora che il nostro “uom dal multiforme ingegno” si è consacrato alla causa di tornare, prima o poi, a fare il presidente del consiglio. Il pericolo di essere fagocitato dal PD che, bene o male è ancora un partito strutturato, lo ha indotto a fare il “descamisado” e a rifiutare l’intesa col PD anche nelle successive elezioni amministrative consegnando alla destra la regione Lazio. Dopo l’unico e inatteso successo in Sardegna, i più recenti tentativi di individuare candidati comuni sono in gran parte miseramente falliti; la persistente renitenza di Conte all’alleanza si è anzi rafforzata dopo gli incidenti giudiziari in cui il PD è incorso in Puglia e in Piemonte, che gli hanno semmai offerto l’occasione di un’ulteriore, moralistica, presa di distanze. Poco interessa al proteiforme politico di Volturara Appula se il suo atteggiamento oscillante tra l’ostilità e la commiserazione rischia di cedere alla destra anche Bari e la Puglia.

Tutto sommato però, aldilà delle legittime ambizioni personale dell’eclettico leader, la realtà vera è che il M5S rimane un movimento inaffidabile, privo di una linea politica omogenea perché “macchiato” dal peccato originale dell’antipolitica, fondata sulla denigrazione di tutti i partiti, partiti che ha poi dovuto imbarcare pur di governare, creando un bel po’ di problemi agli italiani ed alle istituzioni. Ciò non di meno il PD sarà costretto a cercarne l’alleanza se vorrà tentare di liberare il Paese dalla morsa illiberale che lo va soffocando.      

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