Rischio razzismo

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Il premier israeliano Netanyahu

Il conflitto israelo-palestinese è al centro della discussione, politica e non, sin dal suo inizio. Ancora oggi si disquisisce intorno alla rappresaglia di Netanyahu per stabilire se si possa qualificare come genocidio, dimenticando che Guterres, non un qualunque opinionista ma il segretario generale dell’ONU, già dopo le prime migliaia di vittime innocenti nella striscia di Gaza, si era espresso in senso affermativo. Questo per dire che le dissertazioni sulla natura criminale dell’invasione israeliana di Gaza non hanno più alcuna ragion d’essere. Qualche riflessione, si spera non banale, può invece svilupparsi intorno alle proteste universitarie che hanno preso corpo da qualche mese. Nulla da obiettare naturalmente sull’opportunità delle iniziative, compresa la chiamata in causa di rettori e senati accademici nonché le richieste degli studenti di cessare le collaborazioni scientifiche con gli atenei israeliani per scongiurarne l’uso dei risultati a fini bellici. Ci si chiede, se mai, perché un movimento di protesta non abbia fatto seguito anche alla spietata “operazione speciale” portata avanti da Putin in Ucraina. Probabilmente questa inerzia si spiega col generico antiamericanismo che alligna nel mondo studentesco sin dalla guerra del Vietnam e fondato sull’insofferenza alla politica imperialista degli Stati Uniti con annesso braccio militare in Europa, la NATO. E, d’altra parte, anche la simpatia per i palestinesi è ormai radicata da tempo nella coscienza del mondo studentesco.

Cosa non convince nella protesta degli studenti e nella solidarietà ricevuta (o talvolta estorta) da rettori e senati accademici? Non convince e anzi dispiace il suo scivolamento verso l’antisemitismo malgrado esso venga negato da numerosi esponenti della protesta. La Repubblica del 9 aprile riportava l’intervista ad una studentessa ebrea di Torino che, citando un dato statistico, denunciava come uno studente ebreo su due sia stato vittima di episodi di antisemitismo già nelle prime settimane dell’invasione di Gaza. Le atrocità della rappresaglia israeliana sono state dunque riversate sull’intero popolo d’Israele, compresi gli ebrei della diaspora. Non diversamente il sostegno dell’intero popolo palestinese alla violenza terroristica di Hamas è invece un pregiudizio diffuso su cui Netanyahu e i fondamentalisti, dei quali si è reso ostaggio per non perdere il potere, hanno innestato la loro inumana repressione. Si è scivolati dunque nel più superficiale razzismo. Non che i popoli siano totalmente estranei alle ragioni del conflitto: ci sono certamente molti palestinesi che condividono Hamas così come tanti israeliani che sostengono l’attuale Premier dello Stato di Israele, né più né meno di quanto avvenne nella prima metà del secolo scorso: i tedeschi abbracciarono in larga misura il nazismo, così come gli italiani si innamorarono in massa di Mussolini (e molti lo sono ancora). Ciò malgrado tedeschi ed italiani non vengono tuttora additati come nazisti e fascisti (almeno per il momento). Ma, si sa, le generalizzazioni sono una semplificazione della realtà spesso micidiale. Esistono infatti in tutte le situazioni conflittuali minoranze pacifiste più o meno vaste. Basti pensare, tornando alla situazione in atto nella striscia di Gaza, alle manifestazioni che ormai quotidianamente infiammano le piazze di Israele non solo per spingere al rilascio degli ostaggi tuttora nelle mani di Hamas ma anche per chiedere le dimissioni del Premier.

La verità è che i popoli, tutti i popoli, vorrebbero vivere in pace, lavorare e conquistare un po’ di benessere. Tutte le guerre, le aggressioni, da quella dell’Ucraina a quella di Gaza, così come in passato l’invasione della Polonia, dell’Albania o dell’Iraq rappresentano gli sbocchi naturali delle politiche attuate da governi di destra che con la loro propaganda nazionalista o fondamentalista raggirano gli elettori per salire al potere e restarci il più a lungo possibile. È chiaro che, una volta inculcati nelle masse il nazionalismo e il fondamentalismo religioso, i governi di destra possono tranquillamente entrare in conflitto, anche bellico, con altre religioni o con altri nazionalismi anche se, come tutti sanno, le vere motivazioni che spingono sotto traccia alla guerra sono di natura economica. Non sfuggono ovviamente a questa triste realtà neppure i totalitarismi anche se nati da moti popolari con finalità egualitarie come, ad esempio, la rivoluzione russa poi degenerata nello stalinismo.

Queste semplici constatazioni storicamente provate non trovano spazio negli atenei che dovrebbero essere il tempio della riflessione, dell’approfondimento e che rischiano invece di cadere nella trappola delle contrapposizioni manichee tra popoli, etnie e religioni. Semmai la vera distinzione, in tema di propensione alla guerra, è tra i governi di destra, totalitari o meno, e i governi di sinistra.

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