C’era una volta il Carnevale: la storia di Pulcinella e della tradizione culinaria partenopea

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Pulcinella, disegno di A. Nacarlo

Un tempo non tanto lontano, con l’avvicinarsi del Carnevale, le strade di Napoli si animavano di colori, suoni e profumi, ma nulla incarnava lo spirito festoso e misterioso di questa tradizione tanto quanto la maschera di Pulcinella. Con le sue origini antiche e il suo legame con la cultura popolare partenopea, Pulcinella non solo incantava il pubblico con le sue buffonerie, ma anche con la sua atavica fame, spingeva con gusto verso quelle ricche pietanze della tradizione culinaria che accompagnano la festa.

Furbo e tonto, geniale e “cetrullo”, generoso e ladro, bianco e nero. Una contraddizione vivente per incarnare l’animo di una città anch’essa Paradiso e Inferno, sublime e detestabile: insomma Napoli, il suo popolo, la sua identità

Il ricercatore Silvio Palatucci, nella sua opera Maschere teatrali e tradizioni europee: il retaggio della memoria, afferma che la maschera di Pulcinella sarebbe ispirata ad una persona realmente vissuta ad Acerra nel XVI secolo, tale Puccio D’Aniello di professione sartore. Brutto e dalla voce chioccia era però simpaticissimo tanto da essere ingaggiato da una compagnia di guitti girovaghi, pagati per allietare le truppe dell’esercito francese impegnate nell’assedio di Napoli del 1528, ribattezzato il sarto Poucinelle o Pulcinello. Del D’Aniello possiamo ammirare i tratti grazie ad un disegno eseguito nientemeno che da Annibale Carracci.

La codifica scenica del personaggio di Pulcinella la dobbiamo all’attore e commediografo Silvio Fiorillo da Capua, celebre autore-interprete della Commedia dell’arte. Fiorillo incontrò a Parigi Puccio D’Aniello rimanendo profondamente colpito dal suo strapotere comico. Decise di trasformarlo in un personaggio scenico, una maschera da riutilizzare nelle future rappresentazioni: ‘a meza sola (così veniva chiamata la maschera di cuoio nero raffigurante i tratti enfiati e il grosso naso aquilino), per costume un camicione di tela grezza sformato (abbigliamento tipico dei facchini). Per rendere Pulcinella ancora più buffo lo fornì di un cappello a bicorno ed un manganello a forma di citrullo. Completavano il tutto una barba puntuta e dei baffoni mefistofelici.

L’autorevole Enciclopedia Britannica è di altro parere, secondo i redattori inglesi il personaggio di Pulcinella si sarebbe originato dalla fusione di due maschere appartenenti al genere teatrale del IV secolo a.C., le cosiddette Farse Atellane. I due personaggi sarebbero Maccus e Kikirrus. Il primo indossava una maschera nera col nasone adunco e il ventre prominente ed interpretava solitamente la parte del servo goffo e imbroglione; Kikirrus invece era una maschera teriomorfa (con l’aspetto di un gallo) e recitava infatti imitando i versi e le movenze del volatile.

Comunque sia, con la rinascita del Teatro popolare nel Seicento, esplose la celebrità planetaria della maschera partenopea. Si formano in quegli anni compagnie di attori professionisti che giravano l’Europa portando in scena opere della cosiddetta Comedie Italienne o Commedia italiana dell’arte. Una nuova generazione di artisti che abbandonava piazze, facezie piccanti e scurrili dei canovacci improvvisati, iniziando a recitare su veri copioni. La prima opera in cui troviamo Pulcinella protagonista è “la Lucilla Costante” del 1609, scritta proprio dal menzionato Silvio Fiorillo. Un successo comico di tale portata da indurre gli attori anglo-tedeschi e francesi a copiare lo scaltro partenopeo. Nacquero le maschere imitate di Punch e Poulichinelle. Nel secolo successivo la maschera di Pulcinella era talmente nota da essere usata dal grande pittore Gian Battista Tiepolo per affrescare i soffitti della magnifica Cà Rezzonico a Venezia, attuale regina indiscussa della festa.

Non tutti sanno però che la città di Napoli ha condiviso per secoli, con Roma e la città lagunare, lo scettro di “patria del carnevale”, contendendosi il primato non solo per la molteplicità delle maschere e delle rappresentazioni, ma soprattutto per l’abbondanza e la varietà di leccornie preparate specificamente per il periodo della festa. Di fatto il rapporto del Carnevale col cibo è strettissimo, lo stesso nome della festa deriva dal latino Carnem levare (eliminare la carne), indicando il banchetto che si teneva l’ultimo giorno di Carnevale (martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima. Un mondo alla rovescia ben tollerato da chi deteneva il potere, uno sfogo collettivo elargito al popolo con la consapevolezza delle vessazioni subite dallo stesso durante il resto dell’anno.

In età vicereale si allestivano nell’area di palazzo (attuale piazza del Plebiscito), veri e propri paesi della cuccagna. Macchine scenografiche che riproducevano interi scorci cittadini, ricoperti alla cima di ogni ben di Dio. Per arrivare ad accaparrarsene un pezzo però si dovevano scalare le finte mura cosparse di grasso, dopo aver lottato strenuamente con una moltitudine di contendenti. “Divertimento spregevole per una aristocrazia malata che, affacciata alle finestre di palazzo Reale, si godeva lo spettacolo di un popolo affamato costretto a litigarsi il cibo come gli animali” (Citazione da Gleijeses, Festa Farina e Forca).

A mastro Martino da Como, eclettico cuoco di corte dei regnanti aragonesi, dobbiamo la nostra riconoscenza per le ricette del passato tramandateci attraverso il libro Arte Coquinaria. Il regnante Alfonso I, da vero anfitrione rinascimentale, aveva favorito letterati e artisti formando intorno a sé un entourage cosmopolita. Di riflesso anche la cucina napoletana del tempo era un mix di sapori catalani, arabi e mediterranei. Lavoro di Mastro Martino fu quello di estrapolare il meglio di ogni cultura, inventandosi nuove ricette. A lui dobbiamo le prime preparazioni con la pasta asciutta e sempre a lui dobbiamo l’invenzione della “polpetta” fritta di carne e pane, elemento imprescindibile per la preparazione della pietanza regina del martedì grasso: la lasagna.

Le lasagne sono nominate per la prima volta nelle “rime dei memoriali bolognesi” del 1282; comunque, la prima ricetta riferita a questa pietanza la troviamo in un testo napoletano scritto alla Corte Angioina, il manoscritto del Liber de Cocina, il più antico ricettario culinario dell’Occidente cristiano giunto fino ai giorni nostri. Chiamate Lasanis, erano strisce di pasta preventivamente bollite, disposte a strati alternati con farcitura di formaggi e spezie. (Cfr. Angelo Forgione, Storia delle lasagne tra Napoli e Bologna). Solo nel 1634, secondo l’opera del napoletano Crisci La lucerna dei cortegiani, si aggiunsero latticini e la ripassata nel forno. La lasagna napoletana, quella che tutti abbiamo assaggiato con delizia, vide la luce solo nel 1881. Il “principe dei cuochi”, Francesco di Palma, ne definì la ricetta: strisce di pasta (preparate senza aggiungere uova), ricotta, polpettine di carne, formaggio e aggiunta di salsa al ragù preparato con cotiche di maiale e braciole vaccine.

Un’altra prelibatezza da non perdere è il migliaccio, una pietanza contadina a base di farina di miglio e ricotta, arricchita con pezzetti d’insaccati, pepe e formaggio caprino. Questo piatto, dal sapore rustico e avvolgente, è un vero e proprio omaggio alle tradizioni gastronomiche del sud Italia. E che dire del sanguinaccio e delle chiacchiere? Il sanguinaccio è una crema densa al cacao, una volta preparata con l’aggiunta di sangue di maiale addensato (da cui il truculento nome), arricchita con zucchero e spezie, mentre le chiacchiere sono croccanti strisce di pasta dolce fritte e spolverate di zucchero a velo. Questi dolci del Carnevale sono una vera delizia per il palato e rappresentano il culmine di una festa dedicata alla gioia e al buon cibo.

Sarebbe bello finire così, tra le risate di Pulcinella e i profumi avvolgenti della cucina napoletana, sarebbe incantevole se il Carnevale napoletano continuasse a incantare e stupire, celebrando la ricchezza della cultura e delle tradizioni di questa meravigliosa città, sarebbe auspicabile che questo mondo alla rovescia, guidato da folli, finisse alle prime luci dell’alba del giorno successivo in cui dare il benvenuto a una società di uguali.

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