Dai gas è ora di andare

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Foto di un segmento del gasdotto Nord Stream 2

Se da sole le rinnovabili non ce la possono fare, esiste sempre il gas perché il nucleare? Potrebbe osservare qualcuno, o farlo in tanti. Del petrolio forse non è il caso parlarne che di casini ne ha combinati parecchi pure lui, se si pensa, per esempio, a quanto è successo nel golfo del Messico o a quanto accaduto in Alaska. Va bene, il gas.

Prima però rispondo a una obiezione: se l’Europa nella sua tassonomia per il raggiungimento della “Neutralità climatica” entro il 2050 ha previsto la possibilità di sole rinnovabili, perché no? Perché le rinnovabili da sole non ce la possono fare? Per la transizione, entro il 2030 dovremmo raggiungere 70 giga watt, settanta miliardi di potenza elettrica, da rinnovabili. Per come siamo messi in Italia questo vorrebbe dire aggiungere circa 9 giga watt, nove miliardi di watt, cioè di potenza, all’anno. Bene, al momento con fatica riusciamo ad aggiungere 1 giga watt, un solo miliardo di potenza, in più ogni anno. E non tanto, o solo, per problemi di lentezza burocratica e di autorizzazioni per le installazioni che tardano a venire, no! È la stessa Enel ― e voglio ricordare che l’Enel è nel nostro Paese il produttore di rinnovabili di riferimento ― che non va oltre la previsione di 1 giga watt, un solo miliardo di potenza, in più all’anno.

Per non parlare della quantità in chilometri quadrati di territorio che ci vorrebbero per installare tutte le rinnovabili necessarie, in particolare le pale eoliche. Qualcuno cui piacciono i calcoli parla di una superficie come minimo pari a quella del doppio attualmente occupata dalla Regione Molise. Sappiamo anche che si tratta di energia discontinua e che dobbiamo, pertanto, prevedere batterie di accumulo. I cui principali componenti sono il litio dall’Argentina ― che proprio vicina non è, oltre ad una intrinseca e più volte manifestata instabilità ― il cobalto dal Congo ― pensateci, e fatevene un’idea ― il nichel dalla Russia e dalla Cina ― e qui credo che basti citarle, entrambe. Non possiamo farcela senza un’altra fonte. Spero adesso sia più chiaro. Per questo l’Europa ha previsto sia un mix di rinnovabili e gas, sia di rinnovabili e nucleare. Perché “Neutralità climatica” in soldoni significa produrre energia senza emissioni di CO2 in atmosfera.

Ho già scritto che il problema dell’effetto serra, e del conseguente aumento di temperatura, non è soltanto legato alle emissioni di anidride carbonica. Gas serra sono anche il metano, i cloro fluorocarburi, lo stesso vapore d’acqua, che non è un gas, è un vapore appunto, il biossido di azoto, e altri ancora. Tutto quando bruciamo qualcosa come reazione di combustione. Per la verità, sul vapore d’acqua ci sono parecchie perplessità, che io condivido, ma l’ho messo in mezzo anche per sottolineare un poco, se mi è permesso dire, l’isteria su questo tema, del riscaldamento e del climate change. Resta, comunque, l’anidride carbonica quella maggiormente indiziata e responsabile.

Allora, la prima strada, solo rinnovabili per noi non è realisticamente percorribile, non ce la faremo mai e su questo, spero, siamo tutti d’accordo, a meno di qualche “giapponese nella jungla” che sempre lo trovi. Sulla seconda, mix rinnovabili e gas, io non sono particolarmente persuaso. Ne faccio di necessità, virtù.

Spiego. Il gas intanto produce anidride carbonica. È sicuramente la fonte più pulita di energia, ma la combustione chimica, qualcuno direbbe dei leggeri elettroni, porta inesorabilmente alla produzione del più “odiato” dei gas serra, la CO2. Tant’è che i più attenti sostenitori di questa seconda via parlano di impianti di “cattura” dell’anidride carbonica e del suo conseguente stoccaggio. Da quanto so, non vi è nessuna tecnologia consolidata e affidabile né in essere né in fieri relativamente alla cattura e allo stoccaggio. Inoltre, con il gas siamo piuttosto nei guai perché la sciagurata scelta fatta da tanti stati europei di approvvigionarsi dalla Russia si è rivelata, alla luce della guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e delle conseguenti sanzioni e contro sanzioni, un vero terremoto di natura economica, che avrà effetti sempre più severi sulla nostra economia, cioè sulle imprese e sulle famiglie. Ci aspetta per così dire un inverno di guerra. E poiché, sembra proprio che la guerra in Ucraina non sarà di facile soluzione, in tanti prevedono anni di guerra di attrito o se vogliamo di un conflitto, per dire in un modo, a bassa intensità. Perciò altri inverni, oltre ad autunni, estati e primavere, di guerra ci aspettano. Anche se finisse, come tutti ci auguriamo e speriamo, e finisse presto, questa volta sarà difficile, se non impossibile, ritornare allo “status quo ante”.

Lo sforzo di diversificare le fonti di approvvigionamento del gas c’è stato, ed è lodevole, non c’erano alternative possibili ma io credo sia arrivato il momento di ragionare in termini strategici di lungo periodo. Per essere chiari, investire nel nucleare oggi o da oggi non risolve da subito i problemi di natura economica e finanziaria e di costi di questa maledetta tempesta perfetta che pare proprio si sia abbattuta su di noi. Tempesta perfetta perché non possiamo in questo momento rinunciare al gas altrimenti vanno a farsi benedire crescita e stabilità economica ma rinunciando a quello russo il gas costerà sempre di più e, in ogni caso, non sarà sufficiente la diversificazione pure necessaria. E per essere totalmente chiari, investire nel nucleare oggi non ci mette al riparo dalla tempesta perfetta, bisognava non rinunciare quaranta anni fa al nucleare di potenza.

Non abbiamo alternative al momento. Il gas, però, è questo il mio convincimento, deve essere utilizzato come energia di “passaggio” ma non certamente come obiettivo finale. Come obiettivo strategico né di medio né di lungo periodo. Perché bisogna dire finalmente basta all’impoverimento, alla fragilità e alla dipendenza energetica. Di conseguenza, nucleare. Quantificando, in cinque/sette anni ce la possiamo fare. Nucleare per scopi pacifici, mi permetto ridire. Senza patemi, senza insulti, senza pregiudizi, senza alcuna voglia di mostrare “a chi c’è l’ha più lungo”.

Nel merito, e con tutti disponibili ad ascoltare prima di dire la propria. Per questo voglio ancora una volta sgomberare, spero definitivamente, il campo dall’affermazione, che è negazione, quantomeno bislacca, che c’è stato un referendum. Due, per la verità. Due sono stati i referendum: tutti fisici nucleari e ingegneri, in questo Paese! Altro che popolo di santi, navigatori e poeti.

Quello, però, che secondo tanti campioni della democrazia partecipata e popolare ha sancito definitivamente l’uscita dell’Italia dal nucleare e che pertanto impedisce qualunque ipotesi di costruzione di nuovi impianti, non importa se di terza, di quarta o di quinta generazione, è il referendum del 1987. A ridosso della catastrofe di Chernobyl. Quel maledetto casino, avevo promesso che ne avrei riparlato, che è accaduto mentre i compagni stavano facendo un test di sicurezza, poteva accadere solo nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Solo là. In nessun altro paese al mondo, test o non test, sarebbe potuto succedere niente di simile. Perché quel tipo di tecnologia e quel tipo di centrale erano vietati in tutto l’occidente, e dintorni. Questo non è contestabile, nemmeno se si è in mala fede. Dopo di che, ovviamente in Italia, abbiamo messo su un bel referendum. Che nello specifico non imponeva però la chiusura delle centrali e l’addio al nucleare. Perché: il primo quesito riguardava le norme sulle decisioni in relazione alle localizzazioni degli impianti; il secondo le eventuali compensazioni di natura economica ai comuni che ospitavano gli impianti; il terzo la possibilità per l’ENEL di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di impianti nucleari all’estero. Certo, i quesiti proposti erano una bella mazzata, ma, ripeto, non vietavano di per sé la possibilità di nuovi impianti né la chiusura di quelli che erano in funzione. Naturalmente, che lo diciamo a fare, il risultato del referendum politicamente fu: si chiude tutto. Mai una Chernobyl italiana!

Quel capitolo della storia italiana deve servire come monito perenne ed esempio dell’irresponsabilità e dell’ipocrisia della politica come dell’infantilismo italico. Più dell’ipocrisia, perché mi sono fatto un’idea. Personale sì ma precisa. La politica, o una parte di essa, aveva già deciso per il petrolio, cioè aveva già deciso per una dipendenza mi viene da dire dalle “sette sorelle”. O forse gli era stata imposta questa dipendenza o forse ancora è stata una scelta per mostrarsi “più realisti del re” e vincere la battaglia elettorale e politica con gli amici avversari. Sinceramente non so quale sia stato lo scenario vero, ma sicuramente in quell’occasione la nostra politica si è mostrata “serva” o se volete “al servizio” di altri, in netta ed evidente contrapposizione con chi aveva predicato e fattivamente si era adoperato per una reale e concreta indipendenza energetica che fa di un paese un paese forte e rispettato nell’ambito internazionale.

In quell’occasione a mio avviso sono stati traditi, oltre a una intera nazione e il suo futuro, due uomini che da sempre si erano battuti perché l’Italia avesse una sua indipendenza energetica e pertanto una vera impermeabilità a potenze altre. Sto parlando di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo dai contorni decisamente inquietanti, e di Felice Ippolito, condannato in un processo che ve lo raccomando. Il referendum fu il mezzo, ma la politica o, ripeto, una certa politica aveva deciso. Di “asservirci”. Sono un esagitato? Non so. Ma direi che quel periodo andrebbe rivisitato e riscritto in termini più chiari e convincenti. Mentre Stati seri come, tanto per non sbagliare, la Francia, investivano, Chernobyl o non Chernobyl, nella propria indipendenza di nazione forte e coesa noi avevamo l’austerity e… “Domenica in”. Spero vivamente che un giorno qualcuno riuscirà a dirci la verità.

Ma siamo un Paese democratico, non scherziamo proprio. Un Paese dove il popolo conta. Così dopo Fukushima un altro referendum. Il governo Berlusconi aveva timidamente riaperto alla possibilità, molto eventuale, di centrali di terza generazione. Un di là da venire impacciato e timoroso, però, in ogni modo, era un primo passo. Morto stecchito sul nascere. Quei cavolo di giapponesi che ti fanno? Un terremoto di magnitudo nove che ha spostato l’asse terrestre di quattordici centimetri e accorciato le canoniche ventiquattro ore e, non contenti, un maremoto con onde alte tredici metri quando, poveracci, avevano previsto barriere a protezione della centrale di onde anomale di “solo” cinque metri. Va ricordato sempre che, nonostante questo flagello che nemmeno Mosè e le piaghe di Egitto, ne sono venuti a capo. Evitando tutto quello che un mondo impaurito e un popolo, quello giapponese, potesse temere.

Ovviamente a noi altri le preoccupazioni fanno venire le rughe, per cui con tempismo da furbetti strutturati, il governo abroga ciò che aveva proposto. Cancella quello che aveva deciso seppure con somma prudenza. Norme cancellate. Il primo passo diventa una marcia indietro a rotta di collo. E quindi? Quindi referendum per abrogare con piglio democratico, decisionista e popolare quello che non c’era più. Abbiamo abrogato il nulla. Ma vuoi mettere la democrazia, e che scherziamo? Soldi buttati e chiacchiere insulse e petti gonfi e orgogliosi perché ancora una volta giustizia ― popolare, si capisce. Perché la giustizia se non è una sana vendetta populistica, cos’altro potrà mai essere in questo stralunato Paese? ― era stata compiuta.

Che poi. L’impianto di Fukushima Dai-ichi è di seconda generazione, mentre il governo aveva parlato di impianti futuri di terza generazione, che, ovviamente, presentano standard e tecnologie di sicurezza ancora più avanzati e affidabili. Ma che significa? Prevenire è meglio che curare, o no? No. In questo caso proprio no. Anche perché volete sapere cosa hanno fatto tutti quelli che avevano già in uso centrali di seconda generazione? Le hanno chiuse per caso? No, si sono limitati ad una accurata verifica dei loro standard di sicurezza con stress test e crash test ancora più severi.

Questa dei crash test ve la devo raccontare. Ve ne parlo di uno: lanciano una locomotiva di trecento tonnellate alla velocità di 120 chilometri orari contro un device strutturale di una centrale nucleare. Naturalmente succede il finimondo: di solito la locomotiva va ruote all’aria, ma non importa: il test si considera superato se l’“elemento”, strutturale abbiamo detto, non si rompe. Resta integro. Giusto per capirci, in fisica ci sta un’energia che si chiama energia cinetica che dipende non solo dalla massa, diciamo da quanto pesa ciò che si sta muovendo, ma anche dal quadrato della velocità con cui si muove, il tutto diviso due. Da questa formula dipendono i limiti di velocità in particolare per i camion e i Tir. L’energia già è tanta a motivo del peso ― dovremmo dire della massa ma va bene così ― che per un Tir sono quintali e quintali di roba, ma diventa molto di più perché bisogna calcolare il quadrato della velocità. Cioè se il Tir va a ottanta chilometri, il numero da calcolare è seimila quattrocento. Numero che va moltiplicato per la massa espressa in chilogrammi, cioè bisogna necessariamente passare con un’elementare equivalenza da quintali a chilogrammi. O da tonnellate a chilogrammi. Centoventi chilometri all’ora, poi, diventa quattordicimila. Per qualche quintale, in chilogrammi. Cifre da brividi, in termini di quantitativi di energia. Tutta questa energia, abbiamo detto cinetica, si trasforma in energia meccanica distruttiva in caso di urto. Avete idea di cosa succede in un frontale con un Tir? Direi di sì visto che i telegiornali ci tengono a queste notizie. Ebbene quell’affare, il device di cui vi dicevo, sottoposto a crash test regge, senza rompersi né scalfirsi, un frontale con una locomotiva di trecento tonnellate lanciata a centoventi chilometri all’ora. Non ho voluto dirvi dei vagoni. Perché, a volerla raccontare tutta, gli lanciano contro un treno. Ma mi sembrava di esagerare. Comunque, il “dispositivo”, che è di struttura, non si scassa. In caso contrario viene scartato, non è buono per una centrale nucleare. È d’uopo convincersene. Se vogliamo parlare di sicurezza sul serio, non esiste un altro impianto di qualunque natura voi vogliate, dove questa parola, sicurezza, è in ogni momento presente e ponderatamente praticata come in un impianto nucleare. E se non ci credete, mi permetto di ricordarvi Bhopal o l’Icmesa o il Vajont o Marcinelle o, banalmente, un alto forno di un’acciaieria.

Continua …

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