Indagine sull’eternità

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Nascere già condannati a morte, sia colpevoli che innocenti, non è certamente il modo migliore per vivere il tempo della nostra vita. Lo accettiamo perché non abbiamo altra alternativa: nemmeno l’uomo più ricco o potente del mondo può sfuggire a questa nemesi inesorabile che pone fine alla vita di tutti gli esseri viventi e, anche se fra miliardi di anni, anche a quella del nostro universo così come lo conosciamo. Come recita superbamente il grande Antonio de Curtis, in arte Totò, la morte è una livella che pone tutti sullo stesso piano. Bisognerebbe che i “grandi” del mondo di tanto in tanto ci riflettessero, sapendo che nulla e nessuno potrà mai allungare di un attimo la loro vita per quanto potenti essi potessero essere stati e, in vista di questo, adoperarsi per farne il miglior uso possibile, come tutti noi del resto.

Ma, anche se sappiamo che è inevitabile, non riusciamo lo stesso ad accettarla ed ecco, quindi, che nel corso del tempo innumerevoli esseri umani hanno cercato di sfuggire a questa sorte e l’hanno fatto coltivando l’idea che in ogni essere umano vi è una dicotomia: una sua parte è mortale e destinata alla corruzione, ma ve n’è un’altra che è chiamata anima o spirito che non è soggetta alla morte e dalla parte corporea si distacca al tempo del decesso per continuare a vivere per sempre in un luogo che nessuno conosce o dal quale qualcuno è tornato per parlarcene. Quest’idea è uno dei grandi lasciti della filosofia greca, di grandi uomini come Socrate, Platone e molti altri, mentre era sconosciuta nella religione basata sulle Sacre Scritture.

Il cristianesimo, con il trascorrere del tempo, divenne una grande religione organizzata e da esso nacque quella che per secoli è stata la fede dominante: quella cattolica; e fu proprio il cattolicesimo che si appropriò del concetto greco di immortalità dell’anima facendone un uso che ne accrebbe immensamente il potere e la presa sulla mente degli uomini e che — nonostante lo scivolamento verso un sempre più accentuato laicismo — ancor oggi lo esercita su una buona parte d’essi essendosi appropriata della gestione dell’intera faccenda edificandovi sopra una complessa struttura che le consente di agire come unica intermediaria fra il semplice credente e l’Eterno. Ci sono, per esempio, le messe in suffragio (a beneficio) dell’anima dei defunti, ovviamente a pagamento; c’è l’istituto della confessione per il perdono dei peccati, senza la quale l’anima peccatrice è destinata all’Inferno, che insieme al Purgatorio e al Paradiso costituiscono l’aldilà del quale la gestione è affidata esclusivamente alle gerarchie ecclesiastiche che ne sono le detentrici. Questi tre luoghi ultraterreni ai quali sono destinate le anime dei dipartiti non sono menzionati in nessun luogo nelle Sacre Scritture, perché esse naturalmente nacquero in ambiente ebraico, Scritture nelle quali, ad esempio, del Purgatorio non esiste nemmeno l’ombra, né è dato sapere per quanto tempo le anime sono condannate a “purgarsi” prima di poter accedere alla mèta definitiva: il Paradiso.

Se qualcosa di buono può intravedersi in questa grande costruzione ecclesiastica, è almeno il fatto che essa abbia ispirato uno dei grandi capolavori dell’antichità, il nostro sommo poeta Dante, con la sua Divina Commedia. Anche un altro grande beneficio ne è stato tratto, ma questo a esclusivo vantaggio delle gerarchie, ovvero la vendita delle indulgenze. L’indulgenza nelle prime comunità cristiane non era ancora una pratica formalizzata come lo sarebbe diventata nel Medioevo, ma l’idea di una “remissione dei peccati” aveva radici profonde già nei primi secoli. Le prime comunità cristiane consideravano il pentimento e la riconciliazione con Dio essenziali per ottenere il perdono. I cristiani credevano che, attraverso il battesimo, i peccati fossero perdonati; tuttavia, per i peccati commessi dopo il battesimo, era previsto un rigoroso percorso di penitenza. In questo contesto, gli “atti di penitenza” (come digiuni, preghiere o opere di carità) venivano visti come modi per rimettere i peccati commessi e riconciliarsi con la comunità. Tuttavia, il concetto di indulgenza come remissione parziale o totale delle pene temporali dei peccati perdonati, che poi si evolverà nella Chiesa medievale, non era ancora presente in maniera definita. Più avanti, soprattutto con le persecuzioni, nacque l’idea che i martiri e i confessori (coloro che avevano sofferto per la fede) potessero intercedere per gli altri, e ciò gettò le basi per la pratica delle indulgenze e per la concezione di un “tesoro di meriti”. Fu Papa Clemente VI nel XIV secolo a sancire definitivamente la dottrina delle indulgenze che, essendo patrimonio della Chiesa, soltanto essa poteva concedere, e spesso questo avveniva a pagamento. È rimasta famosa l’espressione con la quale il monaco domenicano frate Teztel, incaricato della vendita delle indulgenze in Germania, soleva pronunciarsi: “cade il soldin nella cassetta e l’anima sale in cielo benedetta”. Ovvero poiché la Chiesa disponeva di questo patrimonio di indulgenze da offrire a Dio in cambio del perdono dei peccati di chi giace in attesa nel Purgatorio, alla generosa offerta in denaro corrispondeva l’assoluzione.

Lo scandalo della vendita delle indulgenze fu uno dei fattori scatenanti della Riforma protestante nel XVI secolo. Inizialmente, il concetto di indulgenza era legato alla confessione e alla penitenza, ma nel Medioevo si trasformò in una vera e propria vendita. Questo sfruttamento commerciale della fede suscitò critiche, specialmente da parte di Martin Lutero. Lutero, che, indignato dalla corruzione della Chiesa, affisse nel 1517 le sue 95 Tesi sul portone della Chiesa di Wittenberg, criticando duramente la pratica delle indulgenze e chiedendo un ritorno alla purezza della fede. Questo evento segnò l’inizio della Riforma protestante, che portò alla nascita di nuove confessioni cristiane e alla divisione del mondo cristiano occidentale.

Se volessimo celiare su questa pratica, potremmo definirla una sorta di cauzione che consente al colpevole di essere rimesso in libertà, in attesa del processo. Libertà che può essere parziale o definitiva a seconda che si sia acquistata un’indulgenza plenaria quella che, secondo la dottrina cattolica, libera per intero dalla pena temporale dovuta per i peccati; o un’indulgenza parziale quella che ne libera solo in parte. Abbiamo detto che ci saremmo permessi di celiare su questa dottrina e su ciò che su di essa è stato edificato, e crediamo di averne tutte le ragioni perché sfugge veramente alla comprensione come un credente di buon senso possa prestare fede a questa sorta di “burocrazia del peccato”, che calcola pene detentive — anche se in luoghi diversi dalle carceri terrene —, da scontare e che possono essere diminuite in base alla generosità (o ingenuità) dei fedeli.

Questo breve excursus non ha altra pretesa se non quella di sottoporci il dato storico attraverso il quale una dottrina di così grande rilievo è stata sfruttata per tenere il genere umano in soggezione, perché consapevole che la sua vita eterna nell’aldilà era strettamente legata alla sua fedeltà alla Chiesa che, sola, aveva l’enorme potere di trasferire le “anime” da un luogo di pena a uno di ristoro. E che l’uomo ha in sé la triste consapevolezza della finitezza della sua vita e che questo inevitabilmente è un dato di fatto.

Di quest’argomento così “impalpabile” ha voluto occuparsi un giurista, Guido Rispoli, che in un suo piccolo ma profondo lavoro ha voluto scavare in profondità. Come egli scrive: “Sia ben chiaro, non abbiamo alcuna evidenza dell’effettiva esistenza di un dato spirituale personale — di natura cioè soggettiva — concepibile come avulso dalla nostra corporalità … Una volta accertato che è scientificamente concepibile una dimensione priva di tempo e di spazio e che, quindi, è concepibile una dimensione eterna, la nostra indagine deve ora cercare di capire se questa dimensione atemporale e aspaziale possa avere anche una qualche connotazione personale, una qualche proiezione di natura soggettiva. Si tratta cioè di esplorare se la quintessenza della Realtà ultima sia l’impersonalità — come tendeva a ritenere Einstein — ovvero se il «Principio ordinatore immanente al mondo» sia dotato di personalità, come ipotizzato, tra gli altri, anche dal grande fisico tedesco Max Planck … Se così è, se cioè la soluzione della questione metafisica si trova realmente fuori dal tempo e dallo spazio, temo che dobbiamo rassegnarci ad ammettere che non potremo mai essere in grado di risolvere fino in fondo il mistero metafisico/divino a causa dell’inadeguatezza della struttura del nostro cervello. La scienza progredirà ulteriormente, ma questo limite dell’uomo penso che resterà invalicabile. In relazione al problema dell’esistenza di un «Dio personale», mi pare che, tutt’al più, si possa pervenire alla conclusione raggiunta dal grande filosofo Bertrand Russell: «Insufficienza di prove». Non può certo dirsi infatti, seguendo i parametri probatori, che vi siano «elementi idonei per sostenere in giudizio» l’esistenza di un «Dio personale», né che la sua esistenza possa essere provata «al di là di ogni ragionevole dubbio»”. Siamo quindi costretti a prendere atto della finitezza della nostra vita e, se lo desideriamo, approfondire questo argomento, magistralmente trattato dal giudice Rispoli nel suo Indagine sull’eternità (ed. Laurus Robuffo, 2018).

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