
“Foco, foco, per ogni loco; per lo mondo foco giocondo!”
Il 17 gennaio la Chiesa Cattolica celebra la memoria liturgica di sant’Antonio Abate, eremita vissuto tra il III e il IV secolo in Egitto. In tutta Europa, soprattutto in Italia, si tengono feste, sagre e sacre rappresentazioni in suo onore. Ma perché questo Santo, in particolare, gode di un seguito popolare così radicato? Le sue radici, sia cristiane che pagane, intrecciano la spiritualità con la tradizione contadina e pastorale.
Agli albori dell’evangelizzazione dell’Europa, quando la Chiesa era diventata religione di Stato da pochi secoli, papa Damaso I iniziò a sostituire le festività pagane con celebrazioni cristiane. Sant’Antonio Abate prese così il posto, nelle regioni latine, delle Seminalia, una festa dedicata alla dea Cerere, legata alla semina. Questo Santo, protettore degli animali, degli allevatori e del focolare domestico, si inserì perfettamente in un contesto ancora profondamente legato ai cicli della natura, sostituendo il culto delle divinità pagane con una figura che rispecchiava la semplicità e l’umiltà del mondo rurale.
In Campania, in particolare a Napoli, il culto di sant’Antonio Abate fu accolto con fervore, soprattutto tra i contadini. Ancora fino a pochi decenni fa, nelle periferie e nei quartieri popolari della città, si potevano vedere gruppi di ragazzini intenti a raccogliere legna per accendere i falò dedicati al Santo. Questi fuochi, noti come “Lampa ’e Sant’Antuono”, richiamano antichi riti magico-rituali delle comunità agricole, che accendevano fiamme per scacciare l’inverno e invocare il ritorno della fertilità della terra. La tradizione voleva che, al suono dell’invocazione “Sant’Antuono, Sant’Antuono, pìgliate ’o viecchio e dance ’o nuovo!”, i napoletani bruciassero vecchie suppellettili, segnando simbolicamente la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo ciclo agricolo. Parte del fuoco sacro era poi raccolto per accendere il focolare domestico, perpetuando così il legame tra sacro e quotidiano.
A Napoli, il borgo di sant’Antonio Abate, noto popolarmente come “’O buvero”, prende il nome dall’abbazia omonima, eretta nel 1363 per volere della regina Giovanna I d’Angiò. La sovrana volle ospitare i monaci ospedalieri del Tau, un ordine proveniente dalla Francia e legato alla casata angioina. Grazie alle generose donazioni reali, i frati non solo costruirono una chiesa, ma fondarono un hospitalem, specializzato nella cura dell’herpes zoster, detto comunemente “fuoco di Sant’Antonio”, e dell’ergotismo. Grazie al loro erbolario si preparava un unguento a base di grasso di maiale, salice e alloro, racchiuso in fogli con l’immagine del Santo, che serviva a lenire i dolori delle malattie esantematiche.
In tutta la regione campana, le tradizioni legate al Santo sono numerose e variopinte. A Macerata Campania, in provincia di Caserta, la festa di sant’Antonio è caratterizzata da immensi falò e dai carri allegorici dei “Battuglie”. Questi gruppi di musicisti intonano canti tradizionali percuotendo tini, botti e attrezzi agricoli, dando vita alla “pastellessa”, una musica dal ritmo ipnotico nata per scacciare gli spiriti maligni. Lo stesso nome deriva da una pietanza tipica dei giorni di festa: le laganelle con castagne lesse, condite con olio d’oliva e peperoncino.
A Cicciano, in provincia di Napoli, si celebra il “focarone di sant’Antonio”. Attorno al falò si tengono spettacoli di musica e danza popolare e i giovani si sfidano in prove di abilità, come il salto della brace, un’usanza che richiama i riti pagani di purificazione. Nel Cilento, invece, i “canti del ceppo” accompagnano i falò: strofe tradizionali tramandate di generazione in generazione, che raccontano storie di campagna, religione e lavoro.
Una leggenda medievale racconta che sant’Antonio si recò all’inferno per salvare le anime dei morti contese dal diavolo. Con l’aiuto del suo maialino, che creava scompiglio tra i demoni, riuscì ad accendere il suo bastone a forma di Tau col fuoco infernale e lo portò all’umanità, donandole la luce e il calore. Secondo un’altra tradizione campana, le giornate del 15, 16 e 17 gennaio, dedicate rispettivamente a san Mauro, san Tammaro e sant’Antonio, sarebbero le più fredde dell’anno. La leggenda narra che i tre santi, fratelli, chiesero a Dio tre giorni di terribile maltempo per sconfiggere un’invasione infernale. Dio li esaudì, e da allora si dice: “Mauro, Tammaro e Ntuono: acqua, viento e fridd’, quanto ne vuò”. Queste tradizioni resistono al passare del tempo, offrendo un ponte tra passato e presente. Come scrisse Thomas Stearns Eliot: “La tradizione non si può ereditare, e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica”. Oggi, chi volesse immergersi nel fascino di queste celebrazioni, può recarsi in uno dei tanti paesi campani che ancora onorano il Santo, tra falò, musica, canti e sapori di un mondo che non smette di raccontarsi.