Quando Jean Jacques Rousseau si accinse alla disamina del secolare problema della disuguaglianza fra gli uomini, nel suo famoso Origine della disuguaglianza, non avrebbe potuto che trovarsi in disaccordo con quello che sarebbe stato, di lì a poco tempo, il testo considerato quasi “la Bibbia laica” degli americani, la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, e con il punto centrale d’essa, secondo il quale: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
La prima incongruenza era costituita dall’affermazione che “Dio ha creati”, perché l’uomo — negarlo è scientificamente impegnativo — è frutto di un lunghissimo processo evolutivo nel quale non vi è posto per una creazione divina diretta, qualunque sia il dio; a uomini del ‘700 forse è ancora comprensibile concedere di crederlo, ma non oggi e nemmeno dopo il 1860, quando Charles Darwin diede alla luce il suo celeberrimo “L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale”. Inoltre Rousseau, anch’egli come la maggior parte degli Illuministi, era un deista: indifferente, cioè, a tutte le forme di religione positiva, pur conservando una generica credenza in un Autore dell’universo che è anche il fondamento della vita morale; ma il nocciolo dell’argomentazione rousseauiana riguarda l’affermazione della “Dichiarazione” secondo la quale “tutti gli uomini sono creati uguali”, e questo non si è verificato mai nell’intero arco della storia umana documentata. La base del pensiero di Rousseau è che: “Allo stato di natura gli uomini nascono liberi e uguali. Soltanto il formarsi della società, e in particolar modo della proprietà privata, rende gli uomini disuguali, e di conseguenza alcuni (i più poveri) non più liberi, ma asserviti ai ricchi e potenti”.
Rousseau era un profondo e fecondo pensatore e, prima di dare alla luce la sua opera più nota e più matura, Il contratto sociale, egli era dell’opinione che, perché gli uomini possano unire la libertà e uguaglianza dello stato di natura con le necessità della vita sociale, occorre che la politica si fondi su di un contratto fra ogni individuo e la società, in modo che l’individuo rinunzia alla sua libertà incondizionata ma diviene sovrano, in quanto è parte attiva di quell’unico ente che ha il potere di comandare e di fare le leggi: il popolo. Rousseau è quello che potremmo definire un democratico ante litteram, in un mondo in cui i suoi contemporanei, in genere, erano liberali. Ed è anche comprensibile che la sua concezione di uguaglianza risentisse del tempo in cui visse. Per lui, infatti, popolo equivaleva a borghesia. Solo più tardi il pensiero socialista mostrerà che una vera democrazia non si può raggiungere senza uguaglianza sociale. Ciò non toglie, però, che Rousseau abbia il merito di aver formulato chiaramente, sia pure su di un piano astrattamente politico, l’idea della democrazia, e di aver mostrato come con la proprietà privata cominci l’infelicità umana, che è tutto il contrario del contenuto della Dichiarazione di cui sopra. Argomentò, inoltre, in risposta alla domanda se l’inuguaglianza sia fondata sulla legge naturale, che quest’ultima aveva fondata l’uguaglianza e che era stata l’evoluzione sociale a creare la disuguaglianza. Tanto è vero che nel suo mirabile saggio egli afferma con sincera convinzione che la tragica condizione delle disparità fra gli esseri umani fu dovuta al primo che, “avendo cintato un terreno, pensò di dire «questo è mio», e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, e fu quest’uomo il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili, «Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!»”.
Ma purtroppo, sia ai tempi di Rousseau sia in quelli che seguirono, la natura umana, basata sulla sopraffazione e sulla legge del più forte, che aveva ereditato dalle sue origini “animali”, prese il sopravvento e, una volta posti i confini sulle sue proprietà, l’uomo ritenne che quel terreno recintato fosse suo e che avesse il diritto di difenderlo a qualunque costo. Dal che la constatazione rousseauiana e la domanda che ne scaturisce, cioè che l’uomo è nato libero, ma in ogni luogo egli è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non cessa tuttavia di essere più schiavo di loro. Come è avvenuto questo cambiamento? Perché, ad un certo punto, si cominciò a ritenere che a determinare il grado di uguaglianza dovesse essere, per esempio, il colore della pelle. Questo non è un tratto che abbiamo derivato dal mondo naturale, infatti una pantera non si crede superiore a un leone solo perché ha un mantello diverso, o un lupo superiore a una volpe perché ha caratteristiche fisiche diverse. Le loro differenze sorgono semplicemente in base alla loro forza e capacità di sopraffazione.
Ma gli esseri umani, cercando una giustificazione alle loro disuguaglianze, hanno dovuto inventarne di loro e più essi erano in grado di far valere la loro opinione più le disuguaglianze si rafforzavano. Per esempio, secondo il ragionamento dell’imperatore Caligola, guidato in questo dal filosofo Filone, “come un pastore è di una natura superiore a quella del suo armento, così i pastori d’uomini, che sono i loro capi, sono pure di una natura superiore a quella dei loro popoli, e questo lo portò per analogia alla esatta conclusione che i re erano dèi oppure i popoli bestie. Il ragionamento di Caligola si ricollegava a quello di Filone, filosofo israelita (20 a.C. – 45 d.C.) vissuto alla corte di quell’imperatore, mentre secoli più tardi Hobbes esporrà tesi analoghe in qualità di convinto sostenitore della monarchia assoluta. Ma il primo in assoluto a sostenere che gli uomini non sono uguali fra loro fu Aristotele che nel suo Politica, I, 5 aveva argomentato che gli uomini non sono uguali tra loro per natura, ma che vi sono quelli nati per essere schiavi e quelli nati per esercitare il comando. In un certo senso potremmo dire che Aristotele avesse ragione, ma egli prendeva l’effetto per la causa. Ogni uomo nato in schiavitù nasce per la schiavitù, nulla è più certo; gli schiavi perdono tutto nelle loro catene, persino il desiderio di liberarsene, accettano la loro schiavitù. A questo aberrante modo di pensare, gli uomini sono stati costretti anche perché convinti che la loro condizione fosse giusta perché voluta da un dio. E a questo contribuì notevolmente Paolo, l’apostolo dei Gentili, che nella sua lettera ai Romani, capitolo 13, sancì con l’autorevolezza che gli derivava dall’essere un apostolo del Signore che “ciascuno si sottometta alle autorità costituite. Non c’è infatti autorità se non da Dio, e le autorità attuali sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio”. E, a conferma della sua posizione, comandò: “schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con timore e rispetto” e “gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni in ogni cosa” (Filemone, Tito). Se, quindi, perfino un personaggio come Paolo, riteneva “naturale” una condizione come quella della schiavitù, che è tutto il contrario della condizione di libertà che Cristo aveva promesso ai suoi seguaci (Galati cap. 5), non c’è da meravigliarsi che anche le grandi confessioni “cristiane” per secoli avessero praticato questa esecrabile forma di dominio sui loro simili, fatti anch’essi “a immagine e somiglianza di Dio”.
Anche se è trascorso parecchio tempo da allora, la ragione dell’attualità di Rousseau (di cui vanno attentamente lette le opere per poterne comprendere appieno il pensiero) resta tuttavia quella di essere stato un lucido e implacabile denunciatore delle disuguaglianze e delle difficoltà dell’uomo di diventare veramente uomo. La sua voce risuonerà nelle aule della Costituente e della Convenzione della rivoluzione francese attraverso le parole di Robespierre, Saint-Just e tanti altri.
Ma, amaramente, dobbiamo constatare che il trascorrere dei secoli e dei millenni non ha cambiato molto nella società umana: le diseguaglianze esistono e continueranno ad esistere, e oggi ne abbiamo la conferma assistendo a masse intere di uomini che vagano per il pianeta alla ricerca di una società più giusta, che li consideri uomini e non merci di scambio, e che riconosca loro la dignità che spetta ad ogni essere umano. Ma finché, tanto per fare un esempio, possono esservi uomini che, come Putin, da solo a comandarne centinaia di milioni di altri, decide, per il suo orgoglio personale e per la sua sete di potere, che la vita di centinaia di migliaia di suoi concittadini debba essere sacrificata per assecondare le sue manie di grandezza, riducendoli a non altro che schiavi, la cui vita non vale niente rispetto a quella del loro padrone, possiamo dire di non avere fatto molti passi avanti dai tempi di Caligola. Per Putin, così come per gli altri autocrati che ancora infestano questo pianeta, la vita (quella degli altri, ovviamente) vale solo un po’ di denaro, tanto è vero che alle famiglie dei morti nella guerra con l’Ucraina egli dà come “premio di consolazione” 150.000 dollari per ogni soldato morto. Mentre Kim Jong-Un manda i suoi soldati a morire per una guerra che non lo riguarda lontanamente, ma solo perché vuole essere a fianco del vincitore quando finirà, e soddisfare così la sua megalomania. Quindi, l’origine della disuguaglianza, lontanamente dall’essere un tratto della natura, è un frutto della perversione umana, che alligna purtroppo nelle menti degli uomini e che, sebbene ammantata dalla modernità e dalle tante chiacchiere dei despoti e degli autocrati, caratterizza la nostra specie e sarà molto difficile estirpare, a voler essere ottimisti.