Lo avevamo detto, cosa? Che Trump, con in mano le redini del potere si sarebbe “vendicato” per tutti gli ostacoli — ragionevoli — posti alla sua politica nel primo mandato, e adesso che non corre più alcun pericolo perché non esiste la possibilità di un terzo mandato, vomiterà fuori tutti i rospi che è stato costretto a ingoiare negli scorsi quattro anni. Ci sono alcuni dossier ai quali metterà mano dopo il 20 gennaio 2025, data del suo insediamento ufficiale, che teneva in serbo proprio per un momento come questo. Si tratta, per cominciare, di fascicoli scottanti e di alcune leggi ad hoc per rivalersi sugli avversari in cima all’agenda, come il rilancio del petrolio, le deportazioni, la guerra alla cultura e l’alleanza con Netanyahu. Comincerà con l’immigrazione, per i cui milioni di persone egli ha in programma “la più grande deportazione della nostra storia”. Poi, dato che è noto che il nostro Tycoon entra ed esce dai processi (non ci ricorda un po’ Berlusconi?), ha adesso la facoltà di licenziare i procuratori dei suoi casi e rimandare tutto a fine mandato (a lampante dimostrazione che la legge non è uguale per tutti). È noto che Trump è un fervente negazionista climatico, di conseguenza è prevedibile che ritirerà gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi e rilancerà le perforazioni per produrre petrolio e gas e diventare così la potenza mondiale dominante. Un grosso punto interrogativo è rappresentato dalla piega che potrà prendere la sua politica estera. È opinione comune degli esperti che, per porre fine all’invasione russa dell’Ucraina, potrebbe spingere Zelensky a negoziare la pace voluta da Putin, minacciando la fine degli aiuti, e ciò significherebbe per gli ucraini la perdita del 20% del loro territorio nazionale. Immaginate se a noi italiani chiedessero di cedere Lombardia e Piemonte! Ma, come scrive Timothy Garton Ash: “La prima vittima del secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente l’Ucraina, e gli unici che possiamo evitare questo disastro siamo noi europei, sebbene il nostro continente sia allo sbando”.
Il vero problema che si cela dietro l’elezione di Trump non è un fatto politico, è piuttosto un fatto antropologico. Un ex membro dell’amministrazione Biden, che conosce bene le istituzioni del suo paese, ha ammonito: “Attenzione, non fate errori. Trump è stato solo lo strumento di una svolta a destra dell’America. Almeno cinque milioni di voti in meno, ritirata del consenso negli stati in bilico, ripudio dei nostri temi fondamentali. La vera chiave delle elezioni di martedì è questa”. L’America sta cambiando volto, non è più quella dei gentiluomini alla Atticus Finch o di Barriera invisibile; è un’America che, come l’Italia, sta subendo il fascino dell’uomo (o della donna) forte e che, seguendo un andamento che sembra andare di moda, sta riscoprendo gli slogan e gli orpelli di un passato che credevamo morto e sepolto. Questo, negli Stati Uniti, è dovuto anche al fatto che si tratta di una democrazia in declino, alcuni usano il termine “decomposizione”, e che quindi deve aggrapparsi a chiunque le faccia balenare davanti agli occhi i fasti di una volta. Non per nulla l’acronimo di maggiore successo del nuovo despota al comando è MAGA, ovvero “rendiamo di nuovo grande l’America”, e con questa illusione metà degli americani lo ha investito nuovamente di un’autorità foriera di periodi ancor più difficili di quelli che stiamo attraversando.
Per molti di noi europei e democratici, ciò che è accaduto in quel paese è incomprensibile. “Ma come fa un afroamericano o un ispanico a essere così idiota da votare Trump?” è la domanda che i democratici europei si sono posta dopo aver visto il risultato delle elezioni. “È stato premiato con il voto da imbecilli, guerrafondai, maschilisti ignoranti”. Ma chi la pensa così non si è posta la domanda giusta, cioè: “Com’è possibile che i democratici americani non abbiano saputo spiegare ad afroamericani, ispanici e altre categorie deboli che il loro voto a Trump li renderà ancora più poveri?” Per quanto riguarda gli effetti di questo ribaltone sui paesi dell’Unione Europea, la domanda che le anime belle, che tifavano Trump, dovrebbero porsi è ancora più brutale e trova un’efficace sintesi nelle parole di Paolo Rumiz su Repubblica: “Con quanta efficacia emozionale i loro rappresentanti politici sono stati capaci di dire ai tanti che tifano Trump che i dazi che il loro idolo infliggerà al vecchio continente ci ridurranno in miseria, faranno chiudere fabbriche, obbligheranno a tagliare su scuola, pensioni e sanità per comprare carri armati, e chiuderanno la porta a energie rinnovabili, come dire la tempesta perfetta”.
Dopo ciò che è accaduto in America è più che mai necessario che l’Europa, la nostra vecchia, cara, Europa, si dia una svegliata. E questa svegliata comprende il fare fronte comune contro tutti i nemici che ci assediano e che vogliono disintegrarla anche dall’interno, come per esempio l’ungherese Orbàn. Uno slogan vecchio di duemila anni non ha però perso niente del suo valore. Si tratta delle parole pronunciate da un ebreo di quei tempi: “se una casa diviene divisa contro sé stessa tale casa non potrà durare” (Marco 3:25). E allora uniamola questa casa, in un’Europa più periclitante che mai, con un Macron, indebolito come un’anatra zoppa, la Germania in piena crisi politica ed economica, il governo spagnolo sotto attacco e noi italiani ridotti dai post-fascisti a una succursale della Nato, e l’Inghilterra di Starmer che non ama certo il vecchio continente (vedi Brexit).
Dovremmo tutti fare uno sforzo eccezionale e, invece di seguire i pifferi delle nuove destre antieuropee, dire con chiarezza che l’Europa si batte per esistere, o scompare, e che lo scatto d’orgoglio per rimarcare la nostra differenza, la nostra unicità di terra delle garanzie per i più deboli, deve manifestarsi ora, subito, immediatamente. Oggi più che mai l’Europa ha bisogno di visionari e di impegno. Le democrazie europee hanno bisogno di una rivoluzione narrativa, di parole nuove, e tocca a noi, che ancora amiamo la cultura, di fornirgliele. Ed è ancora Rumiz, che in un appassionato peana per l’Europa, così continua: “La vergogna è nostra, non di chi ha votato Trump; di quelli che chiamano imbecilli gli americani in generale e non di chi ha scelto come presidente un vecchio rancoroso e razzista non solo per ignoranza ma anche per stanchezza del bellicismo, dell’ipocrisia e del moralismo di Biden e soci. Trump è il presidente di una working class cui i democratici, con il loro ecologismo elitario, non hanno saputo parlare, una classe operaia americana che non ha idea di cosa sia il welfare e cosa siano le garanzie europee, e che misura il benessere solo in rapporto al potere d’acquisto. Gente che guarda all’inflazione e basta, e alla quale non frega niente un boom economico che premia i privilegiati. Vergogna è aver abbandonato le fabbriche, non aver ascoltato gli ultimi. Vergogna — qui parlo dell’Italia — è aver lasciato crescere un’opinione pubblica generalmente rassegnata, sedata dal web, e restia a scendere in piazza persino contro le nuove leggi liberticide; è non aver capito che alle ragioni della pancia non puoi rispondere solo aggrappandoti al mondo rarefatto delle idee, perché quello è prerogativa di chi ha la pancia piena, e allora il messaggio democratico suona dannatamente falso se dentro non ci metti il cuore, che è l’unico antagonista credibile alle egoistiche ragioni dello stomaco”.
Francamente, vedere il Trump appena eletto, con la sua chioma arancione, sul palco imbandierato di Palm Beach circondato dalla famiglia e davanti ai sostenitori in delirio, semplicemente mostrandosi, così come la vittoria fosse qualcosa da riscuotere, scritta nel cielo e promessa all’America come “una nuova età dell’oro”, fa tremare i polsi delle persone ragionevoli. Lui, Donald Trump. 47° presidente degli Stati Uniti è pronto; ma non all’incarico, all’impegno, al servizio dello Stato, ma alla “missione”: “Renderò l’America sicura, forte, prospera, potente e libera di nuovo … Qualcuno mi ha detto che Dio mi ha risparmiato per un motivo; e ora manterrò le promesse”. Che il capo di una grande nazione della terra si dichiari investito di una missione divina e che prometta una nuova età dell’oro non può che farci venire i brividi. E allora vorremmo concludere questa riflessione con le parole di Ezio Mauro su la Repubblica del 7 novembre scorso: “Così l’America trumpiana può riprendere la guida del nuovo mondo, parlando sia ai democratici intermittenti e a bassa intensità, che ai leader autoritari e agli autocrati, persino ai despoti, oltre che ai miliardari e ai «supergeni» come Elon Musk, invitati a invadere la politica con il loro futurismo tecnologico pronto a diventare ideologico, mettendo l’innovazione al servizio della semplificazione del governo. Alla fine, scarnificando la divisione dei poteri, rimarrà un’unica separazione in vigore: quella tra il comando e la democrazia, un divorzio che inseguendo la promessa dell’oro rischia di riportarci tutti all’età del ferro”.