Quale intelligenza?

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Disegno di Antonio Nacarlo

Si sottolinea spesso, nei commenti che ne accompagnano l’operato, l’intelligenza della Meloni. Ultimamente lo stesso Travaglio ha apprezzato questa qualità della Premier. Prima di esprimere la mia personale opinione al riguardo, si rende necessario un piccolo preambolo autoassolutorio. Le mie letture in proposito sono soltanto occasionali: non ho letto neppure il quotatissimo “L’intelligenza emotiva” e, in generale, dedico poco tempo alla lettura di saggi, preso come sono dalla lettura dei quotidiani da quando scese in campo la buonanima di Berlusconi. Se parlo di intelligenza è dunque perché ho tante volte riflettuto sulla varietà delle forme che essa può assumere in ciascun individuo. Pur senza averne formulato un catalogo ho, ad esempio, individuato l’intelligenza analitica contrapponendola a quella orientata alla ricerca della sintesi. In politica, che è poi il terreno nel quale ferve il dibattito, credo esistano un’intelligenza tattica ed un’intelligenza strategica. La seconda, più audace e quindi più profonda, individua lo scopo ultimo dell’attività di ciascun politico mentre la prima cerca i passi giusti per arrivarci.

Come si muove l’intelligenza strategica della Meloni? L’obiettivo è quello di “cambiare l’Italia”, ma forse anche l’Europa e, perché no, il globo terracqueo: “Stiamo facendo la Storia”, ha proclamato ultimamente. Bene, immaginando che la Meloni non possa andare facilmente oltre al cambiamento della Nazione, sembra ormai chiaro a tutti che si tratta di cambiare il clima culturale dell’Italia riportandola indietro di un centinaio di anni per rivalutare il Ventennio che le è tanto caro. Questa “rivoluzione” (rivoluzionaria si definiva falsamente anche la restaurazione del Duce) si concretizza nell’accentramento del potere nelle mani di un autocrate sottraendolo ad ogni possibile controllo, nel ridimensionamento dei diritti strappati dalle donne e dai lavoratori in quasi un secolo di lotte, nell’imposizione dell’ordine pubblico se necessario con la forza ma soprattutto recuperando  l’identità nazionale che si è andata sbiadendo, ad avviso della Meloni e dei suoi gregari, nelle mani dei governi costituzionali che si sono susseguiti nel tempo.

Ma questo disegno identitario è illusorio perché non realizzabile in un contesto sociale nel quale l’amor di patria degli italiani si esprime solo in occasione di eventi sportivi, mentre gli stessi tentativi del Governo di reintrodurre terminologie italiane in sostituzione di quelle angloamericane sono falliti miseramente: il Ministero è del “made in Italy” come lo è un corso liceale di nuova istituzione già fallito. Per non parlare del linguaggio del mondo digitale e dello spettacolo totalmente appannaggio della lingua d’oltreatlantico. L’obiettivo di recuperare un’identità nazionale, preservando la purezza della “razza” o richiamando i simboli della romanità a suo tempo resuscitata da Mussolini urta anch’esso con la realtà dei fatti ma soprattutto con lo stato delle relazioni internazionali e con la conformazione geografica dell’Italia. Il nostro Paese non ha alcun interesse ad isolarsi in una gelosa e magari sovranista identità nazionale: povero di risorse energetiche interne, connesso inevitabilmente con gli altri paesi, sovranisti inclusi, per gli scambi commerciali, con un territorio che sembra fatto apposta per richiamare gli immigrati dall’Africa e dal Medio Oriente. Queste circostanze espongono inoltre il Paese a gravi rischi individuabili innanzitutto nel distacco dalla politica comunitaria che, con la sola eccezione dell’Ungheria di Orban e dei paesi satelliti, vive di una cultura totalmente inserita nei costumi delle democrazie occidentali. Isolarsi dall’UE significherebbe anche gestire in proprio e per sempre fenomeni migratori che tendono fatalmente ad accrescersi.

L’intelligenza strategica della Meloni è dunque lacunosa forse perché non si accompagna al senso critico, cioè alla capacità di valutare se e quali ostacoli si frappongono alla realizzazione del progetto fissato. Ed infatti gli ostacoli e i rischi, come si è detto, sono tanti. Si è fatta la Meloni l’idea che la fuoriuscita dall’UE potrebbe gettare il Paese in una grave recessione legata ad un colossale indebitamento pubblico ed aggravata dal deficit di professionalità che si è andato accumulando nell’ultimo decennio con la cosiddetta fuga dei cervelli? Si è resa conto che singoli paesi sovranisti sono destinati non già ad aiutarsi ma a difendere ciascuno i propri interessi? Ed infine, sempre che abbia colto la gravità del fenomeno (ma non possiamo dubitarne: è intelligente), ritiene che ciascun paese possa affrontare da solo l’emergenza climatica e l’avvento dell’Intelligenza Artificiale? L’intelligenza tattica della Meloni dovrebbe dare qualche risposta a queste domande in senso positivo, se l’obiettivo è quello della restaurazione fascista, o in senso negativo se non lo è. Le mosse sin qui poste in essere dalla Premier possono riassumersi in due grandi filoni. Il primo è quello dell’occupazione capillare di tutti i centri di potere che incidono sulla cultura e sull’informazione, a partire dall’emittenza pubblica e continuando poi con le presidenze ed i Consigli di amministrazione dei teatri lirici, la Biennale di Venezia, il finanziamento pubblico della produzione cinematografica ed altro ancora: tutte queste fameliche appropriazioni lascerebbero pensare che la rivoluzione culturale sia la priorità. In parte è destinato alla stessa finalità anche l’accaparramento selvaggio di tutti gli istituti nazionali, come l’INPS, l’INAIL, l’ISTAT, il controllo dei quali è necessario per filtrare alla “nazione” solo le informazioni ritenute favorevoli al Governo, omettendo ovviamente quelle che non lo sono. Il tutto, com’è evidente, per fini propagandistici. L’altro filone riguarda le relazioni internazionali. La scelta di fondo è stata quella di accattivarsi le simpatie e la fiducia dell’UE e degli Stati Uniti garantendo piena fedeltà atlantica. Scelta opportunistica perché avvenuta in una fase, quella del PNRR, da non lasciarsi sfuggire. Anche la fedeltà alla NATO è stata ineludibile perché l’UE le è quasi sovrapponibile. E pur tuttavia la Meloni non ha esitato a tradire più volte le aspettative che aveva suscitato: le strizzatine d’occhio ad Orban, i silenzi in numerose circostanze che avrebbero richiesto una netta presa di posizione, il rifiuto ostinato di sottoscrivere, unico membro dell’UE, il famoso MES ed ultimamente l’astensione nell’elezione della Von der Leyen non possono non apparire come vere e proprie contraddizioni. Cercare di interpretarne le motivazioni è compito facile: la Meloni vuole lasciarsi una porta aperta verso tutte le possibili configurazioni politiche che il futuro prossimo le prospetta. Se vince Trump negli U.S.A., sarà pronta ad abbracciarlo così come sarà pronta a farlo con Orban e Putin se l’UE dovesse dissolversi. Ma se l’UE dovesse rafforzarsi la Meloni riabbraccerebbe la Von der Leyen. L’intelligenza tattica della Meloni ci dice, in conclusione, che il suo obiettivo strategico, cioè la rivoluzione culturale regressiva, non è altro che la ciliegina sulla torta. Lo scopo ultimo è in realtà quello di consolidare il suo potere personale e di mantenerlo il più a lungo possibile. In questa ottica vanno interpretate le sue mosse tattiche più rilevanti: il premierato e l’asservimento dei poteri legislativo e giudiziario a quello esecutivo posto in capo ad una donna eletta direttamente dal popolo e quindi intoccabile. Che si tratti di furbizia più che di intelligenza?

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