Con qualche anno di ritardo si è finalmente aperta una discussione interna sul futuro del M5S. I vertici di questo confronto si incarnano in Giuseppe Grillo, Beppe per gli amici ma anche per i nemici, da una parte e Giuseppe Conte dall’altra. Due Giuseppi che si scontreranno su identità, valori e programmi.
Che il movimento fondato da Grillo e Casaleggio non avesse dei precisi riferimenti politici è cosa nota e dimostrata dagli ondeggiamenti paurosi a cui si è lasciato andare. Partito con l’obiettivo di governare da solo senza dover ricorrere a connubi più o meno maleodoranti, è passato senza traumi interni dall’alleanza gialloverde a quella giallorossa. I pentastellati hanno poi sostenuto il governo tecnico guidato da Draghi per poi lasciarlo miseramente cadere pur di difendere l’ultimo baluardo in cui restare uniti: l’inceneritore di Roma.
Ma quale era il programma iniziale del Movimento? A parte il richiamo all’onestà si proclamavano contenuti genericamente populisti, tanto populisti da non scontentare né i nullatenenti né gli evasori fiscali, né i razzisti né le istanze gender. Un bel calderone, insomma, nel quale ognuno poteva trovare motivi di adesione. Il collante di questo pastone polivalente era in realtà l’accusa di disonestà rivolta a tutti i politici di tutti i partiti in ugual misura. Di qui il qualunquismo, solo in parte giustificato, dei “vaffadays” del “Parlamento da aprire come una scatola di sardine” ma anche, e giustamente, la lotta feroce contro i privilegi che si era attribuita la “casta”, come vitalizi immeritati, accesso a benefìci assistenziali e materiali, oltre agli abusi veri e proprie come l’utilizzo delle “auto blu” per scopi privati.
E fin qui poco o nulla da obiettare, salvo lo strabismo che portava i grillini ad una ingiusta generalizzazione. Il successo del Movimento nacque proprio da questa insofferenza verso tutti i partiti, condivisa da molti elettori ai quali però si dettero in pasto anche propositi punitivi nei confronti di tutto il Parlamento: i parlamentari erano incompetenti, da cui l’“uno vale uno”, fannulloni e quindi superflui per cui bisognava ridimensionarne il numero; guadagnavano troppo e il trattamento economico andava ridotto sensibilmente; i partiti dovevano autofinanziarsi come promettevano di fare i grillini ed, infine, l’elezione di un parlamentare non doveva superare i due mandati consecutivi.
Si delineava in sostanza una vera e propria messa in stato d’accusa della politica tout court correndo però il rischio di demolire alcuni capisaldi costituzionali. Già l’abolizione del finanziamento pubblico, sancita qualche hanno prima, suonava come una grave discriminazione delle rappresentanze partitiche delle classi sociali più deboli. Anche gli altri proponimenti del Movimento sollevavano seri dubbi. L’incompetenza e l’incapacità dei senatori e dei deputati dipendevano da leggi elettorali sbagliate e non giustificavano l’eventualità che potesse sedere in parlamento “uno” qualunque purché onesto e volenteroso. Particolarmente grave, anche se poi condiviso in linea di principio da altri partiti, era e rimane tuttora la limitazione a soli due mandati. In essa si adombra una sorta di presunzione di colpevolezza (l’opposto della presunzione di innocenza garantita dalla Costituzione) dando per scontato che una troppo lunga permanenza nella carica parlamentare possa costituire la premessa di comportamenti dolosi, senza considerare invece lo spreco delle esperienze acquisite negli anni: quando la politica italiana era ancora guardabile, si apprezzavano i parlamentari di lungo corso, almeno quelli non chiacchierati.
Ma poi il M5S ha dovuto fare i conti con la politica vera, con le responsabilità di governo e ne è uscito malconcio. A parte le concessioni alle iniziative della Lega contro l’immigrazione ed a favore degli evasori fiscali, quelle attuate in proprio sono state parzialmente inefficaci (come il reddito di cittadinanza) o economicamente disastrose (come i super-bonus). Le cose migliori sono avvenute col governo giallorosso, il Conte 2, che ha dovuto destreggiarsi nell’emergenza Covid, guadagnandosi apprezzamenti anche all’estero e riconquistando quel minimo di prestigio che ha consentito di ottenere i famosi 219 miliardi del PNRR. Tutti ricorderanno gli applausi che il personale di Palazzo Chigi, affacciato alle finestre, tributò a Conte mentre attraversava il cortile dopo aver consegnato il canonico campanellino a Mario Draghi.
Proprio sul crinale politica/antipolitica oggi devono venire alla luce le due anime dei pentastellati: quella grillina, movimentista, condannata a rincorrere le farfalle, e quella governista che deve a sua volta chiarire se intende far parte del famoso campo largo o se accostarsi a quel vagheggiato centro che fa capo a Forza Italia e ad Azione di Calenda. Ci auguriamo che all’interno di questa ultima dicotomia prevalga la collocazione progressista, già condivisa su tematiche come l’antifascismo, il salario minimo, la lotta alla povertà e la difesa dei diritti civili: non dimentichiamo che Conte, bene o male, dichiarò che il suo cuore batteva a sinistra. Ci sarà una scissione o magari più di una? Non è possibile prevederlo, ma Conte ha comunque un suo personale seguito di cui la sinistra non può fare a meno.