**Rapporto Investigativo**
**Oggetto: Indagine su foto raffigurante una sirena bicaudata su un portone di Napoli e il suo rapporto con il logo della famosa catena Starbucks e di un palazzo dalla strana forma oblunga in luogo imprecisato.
**Data di Inizio Indagine: 01/07/2024
**Data di Conclusione Indagine: 15/07/2024
**Investigatore: Philip “pezzotto” Marlowe
**2. Dettagli dell’Indagine:
Sirena Bicaudata:
**Localizzazione: Portone di un edificio storico a Napoli in Borgo Sant’ Antonio Abate n°188.
Palazzo Oblungo:
**Localizzazione: Napoli, Vico Guardi n°15
**3. Metodologia:
– Ricerche storiche su archivi locali.
– Interviste con residenti locali e storici.
– Esame di documentazione fotografica e mappe storiche.
**4. Risultati: Non sono emerse informazioni rilevanti che colleghino la sirena bicaudata a una storia specifica o a un evento significativo. Analogamente, il palazzo dalla forma oblunga non è stato associato a dettagli storici o architettonici particolari nei registri consultati.
**Caso Chiuso**
Questa è la versione ufficiale presentata al cliente, ma non è tutta la storia. Se vi va leggetela.
Faceva un caldo infernale. Ero seduto fuori al mio balcone con sigarette e acqua minerale pronte a ristorarmi sul tavolino da spiaggia arrugginito. Cercavo di fingermi Hemingway che sorseggiava daiquiri e fumava sigari sulle terrazze del Harry’s Bar all’Havana, ma lo sforzo d’immaginazione era vanificato dalle canzoni neomelodiche sparate a palla in sottofondo e da quel bambino che provava a suonare una tromba, maltrattando lo strumento e i timpani del vicinato.
Mentre ero lì a maledire l’estate e chi aveva inventato le ferie, uno squillo del telefono mi fece trasalire. Era il mio vecchio maestro che mi aveva mandato due foto e quattro righe di testo: “Fammi sapere qualcosa di più su queste immagini, vedi la sirena è identica al simbolo di quella catena di caffè americana, potrebbe uscirne una buona storia”.
Niente altro. Forse aveva troppa fiducia nelle mie capacità deduttive…
Le immagini, come detto, rappresentavano una sirena bicaudata e quello strambo palazzo oblungo. Nessun riferimento su dove si trovassero, nessun altro maledetto indizio. Per il logo, avendo una formazione da grafico pubblicitario, sapevo bene che il simbolo di Starbucks, la sirena, era stato creato da tre studentelli nella città portuale di Seattle negli anni Settanta. Il nome lo presero da un personaggio del “Moby Dick” di Melville, l’ufficiale Starbucks appunto, la sirena doveva ammaliare gli avventori e “costringerli” a ristorarsi dopo le fatiche quotidiane. Solo commercio yankee e niente che mi interessasse.
Mi alzai dalla sedia, accesi un’altra sigaretta e guardai ancora quelle foto. La sirena napoletana mi fissava con occhi enigmatici, mentre il palazzo sembrava sfidarmi con la sua forma bizzarra. Iniziai a chiedermi se ci fosse un legame tra i due, qualcosa che andava oltre la pietra e il mattone.
Un altro assurdo rompicapo che forse non avrebbe portato a nulla di concreto, o forse sì. C’era qualcosa che mi dava noia, una sensazione che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Forse era la stessa aria calda che confondeva i pensieri, o forse quell’intuizione che ogni buon investigatore impara a non ignorare mai.
La sirena e il palazzo oblungo erano più di semplici oggetti di curiosità per me. Erano simboli, frammenti di storie non raccontate, di vite intrecciate nei vicoli.
Decisi di mettermi al lavoro. Come ho poi sintetizzato nel rapporto, iniziai seguendo i passi dello storico dilettante:
Ricerche su archivi online. Consultazioni di libri di storia dell’arte e architettura napoletana.
Aiutandomi con Google lens trovai il palazzo ritratto su una foto di un sito giapponese, traducendo la scritta capii che l’immagine era protetta da copyright e che, se volevo potevo acquistarla per 60 ¥, ma nessun indizio su dove si trovasse. Allora provai i tradizionali metodi e, mettendomi a scartabellare vecchie mappe topografiche, individuai un palazzo dalla strana forma: bingo! Si trovava alle spalle del teatro di Eduardo. Aprii Maps ed eccoti l’indicazione geografica corretta: Vico Guardia n°15.
Non restava che recarmi sul posto. La mia Panda seconda serie, tutta ammaccata, si crogiolava al sole, quel vecchio macinino non voleva saperne di partire, ma dopo quattro calci ben assestati si mise in moto. Destinazione: via Foria. Sul posto, di anziani del luogo manco l’ombra, una pletora di turisti affollava i vecchi palazzi trasformati in B&B. Una fauna varia intorno al vecchio palazzo alle spalle della murazione aragonese. Ormai rassegnato a non cavare un ragno dal buco, mi avviai verso un improbabile bar dal nome esotico per sorbirmi l’ennesimo caffè della giornata. Alla cassa, un grazioso esempio di femminello agè, con collana di corallo e ventaglio di serie, mi sorrise chiedendomi: «Giuvinò, vi ho visto che guardavate nel vicolo. Cercate a qualche d’uno?»
«Veramente volevo qualche informazione storica su quel palazzo dalla strana forma».
«O palazz’ ‘e piglia n’culo?»
Quella risposta mi fece sorridere e mi incuriosì allo stesso tempo. Avevo finalmente trovato qualcuno che conosceva il luogo. Continuai: «Sì, proprio quello. Sapete qualcosa della sua storia?»
Il femminello si sistemò la collana di corallo e iniziò a raccontare: «Niente di equivoco, giuvinò, il nome del palazzo nasce dalla sua forma e dalla sua posizione subito di fronte alle due vecchie torri aragonesi che adesso non ci stanno più. Una vecchia amica mia mi raccontava che le due torri vicine avevano la forma di un bel mazzo, un bel culetto jà! Mentre il palazzo di Vico Guardia ha la forma di cuneo che punta verso il centro delle torri, simile a un membro maschile, mi capite…»
Il femminello sorrise, mostrando una chiostra di denti da cavallo. A questo punto dell’indagine, non mi costava nulla mostrargli anche l’immagine della sirena che avevo sullo smartphone.
«Che mi dite di questa?» Chiesi, esibendo la foto della sirena dalla doppia coda di pesce. Lui scrutò l’immagine con attenzione, poi annuì lentamente: «Ah, quella sirena…»
Giù un sospirone, poi continuò: «È legata a una leggenda romantica e triste. Si dice che sia stata scolpita per ricordare una bella zingarella che rubava il cuore e i tesori della gente del posto. Sparì misteriosamente una notte, e il suo innamorato, un giovane mercante, fece scolpire questa sirena come simbolo del loro amore perduto.»
Altro patetico sospiro al che gli chiesi: «Sapete dove posso trovarlo questo palazzo?»
«Certo, al borgo Sant’Antonio Abate numero 188, dove sta la verdummara, la fruttivendola Cenzina. Scendete dritto per questo vicolo e girate a destra quando finisce, cento metri non vi potete sbagliare!»
Ringraziai il mio strambo Cicerone per le informazioni e finii il mio caffè. Uscendo dal bar, mi sentii più determinato che mai a seguire questa pista. Mi incamminai verso il borgo, con la speranza che finalmente avrei trovato il palazzo e magari qualche altra tessera del mosaico di questa affascinante e intricata storia.
Accesi l’ennesima sigaretta della giornata e mi avviai per quel dedalo di strade mai raggiunto dal sole. Conoscevo bene ‘o Buvero, ci ero stato migliaia di volte da bambino e mi aspettavo di essere investito da una marea di gente a caccia di buona qualità ad ottimo prezzo nell’enorme mercato rionale. Mi aspettava tutt’altro… Anche qui il boom vacanziero aveva operato il suo nefasto effetto. Via i buvaresi e dentro i turisti, via le bottegucce, le bancarelle, la pizza fritta fuori dai bassi e dentro i fast food globalizzati.
La malinconia nel mio sguardo si rifletteva sui palazzi tirati a lucido e sulla nuova pavimentazione pedonale. Le strade che un tempo erano animate da voci e colori locali ora sembravano una cartolina senz’anima, piena di negozi di souvenir e caffetterie dal design standardizzato. Il cuore pulsante del Borgo Sant’ Antonio Abate sembrava essersi perso nella modernizzazione. Mi fermai per un momento, osservando l’ambiente circostante. Ricordi d’infanzia riaffioravano, insieme al senso di perdita per un mondo che non esisteva più. I cambiamenti sono inevitabili, ma ciò non rendeva meno doloroso vedere trasformata una parte così significativa della mia storia personale.
Con un sospiro, continuai a camminare verso la mia meta, il palazzo al numero 188, seguendo le indicazioni del femminello. Scendendo per il vicolo e girando a destra, finalmente lo vidi. La verdummara, Cenzina, stava lì come un baluardo del passato, tra le luci al neon dei nuovi ristoranti e i turisti armati di fotocamere.
Nonostante tutto, c’era ancora qualcosa di autentico in quel luogo. La sirena bicaudata sul portone sembrava guardarmi con un’espressione enigmatica, come se custodisse tutti i segreti del tempo. Il suo sesso oscenamente esposto divaricando le code, con un sorriso più strafottente che ammaliante fu un’epifania, un messaggio che sembrava riferire: vecchi mercanti e nuovi turisti, viceré spagnoli e nuovi fascistelli, fottetevi tutti, io rappresento il popolo di Napoli e tutti voi passerete mentre io rimarrò qui, eterna, a farmi beffe della vostra caducità mortale.
Avvicinandomi, sentii un legame profondo con il passato, un filo sottile che collegava la storia del palazzo alla mia stessa esistenza. Forse non avevo trovato tutte le risposte che cercavo, ma avevo riscoperto una parte di me stesso e della mia città che pensavo fosse perduta per sempre.
Decisi di non rivelare nulla al mio cliente, del resto prima regola dell’investigatore storico è “non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli buoni”.
Molto bello, grazie.
Grazie a lei e a tutti voi che ci date la possibilità di esprimerci liberamente!
Ottima indagine, articolo divertente!
Grazie mille per i complimenti.
Bravo Antonio … un’indagine apparentemente banale come pretesto per una riflessione più profonda sulla natura cangiante della città … hai catturato l’anima di Napoli in un momento di transizione … uno dei tanti
Grazie mille per il commento Raffaele.